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Alberto Angela è la dimostrazione che i social sono amici della qualità

Sabato sera. Prima serata. Gli spettatori televisivi non sono solitamente molti, la gente preferisce uscire, approfittando del fine settimana. Se si opta per stare a casa si è soliti sintonizzare l’apparecchio televisivo su un programma divertente, rilassante o uno spettacolo, insomma, si sceglie l’intrattenimento.

Ma Alberto Angela con il suo programma Ulisse è riuscito ad incollare allo schermo quasi 4 milioni di telespettatori in un mite sabato sera di ottobre: un risultato notevole! Se ci aggiungiamo che l’argomento di sabato 13 ottobre non erano dei teneri cuccioli di capriolo o le bellezze inarrivabili della nostra Italia, ma si parlava del rastrellamento del ghetto di Roma nel 1943 (non proprio un argomento da serata al pub con gli amici), il risultato è sicuramente impressionante! Quali sono le ragioni di questo successo?

Sicuramente Ulisse è un programma di qualità e Alberto Angela è un perfetto divulgatore, ma gli ascolti (record per questa tipologia di TV) si devono anche all’esplosione del fenomeno social che lo riguarda.

Da più di un anno infatti Angela Junior è al centro dell’attenzione dei social media. Pagine facebook e gruppi privati spuntano come funghi per celebrare le doti intellettuali (e non) del più popolare conduttore televisivo del momento.

Rimanere a casa il sabato sera per guardare Ulisse con Alberto Angela è un esempio di questo fenomeno, dove il personaggio viene paragonato addirittura al campione Cristiano Ronaldo:

La fanpage ufficiale del conduttore televisivo conta circa 870.000 like, più di quelli della pagina di un programma come il Festival di Sanremo.

Ma cosa fa il figlio del celebre Piero Angela per alimentare questo successo di pubblico? Nulla più che il suo lavoro, in modo eccelso, questo va detto. La sua fama social ha preso il volo un po’ per caso e lui non ha fatto altro che cavalcare l’onda nel modo giusto, senza strafare o concentrarsi solo sul web, anzi; ha continuato a ideare e condurre i suoi documentari con la solita minuziosità ed enfasi narrativa.

Social e televisione sono due canali indipendenti e il successo su uno non sempre equivale a un buon risultato sull’altro. Se Ulisse non fosse un programma fatto bene, resterebbero famosi solo i meme su Alberto Angela e non il programma stesso. I curiosi si annoierebbero dopo i primi due minuti di trasmissione se non ne valesse la pena e continuerebbero solo a commentare il suo aspetto fisico.

Allora, qual è la morale della favola Alberto Angela che quasi eguaglia i risultati portati a casa da Maria de Filippi con il ben più leggero Tu sì que vales? Che i social sono un ottimo strumento di marketing e di reputation, che vanno sfruttati anche se non fanno direttamente parte del nostro mestiere perché possono portare un ritorno positivo proprio al nostro lavoro, ma solo se continuiamo a farlo bene.  

 

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Il carrello abbandonato e la marketing automation

Marketing automation contro l’abbandono estivo (e non) dei carrelli.

Le ultime settimane prima della pausa estiva sono sempre difficili per chi lavora in comunicazione. Ma a volte nonostante la voglia di staccare la testa, si trova qualche sorpresa.

Vi voglio raccontare la “casuale” richiesta che è emersa da parte un importante produttore nel settore enogastronomico che ha imparato negli anni a differenziare la propria produzione tra vino e alimenti di nicchia IGP e che vede nel mondo intero il suo mercato potenziale.

Consapevole delle potenzialità del mondo digitale l’azienda negli anni ha deciso di portare il proprio brand dal mondo analogico (fiere, presentazioni, brochure …) a quello digitale, con un sito vetrina che desse lustro alla “nobiltà” del processo produttivo e selettivo dei prodotti e poi con il fatidico “salto verso il mercato“, prima su marketplace terzi e poi direttamente sul sito di commercio elettronico.

Fino a quando il “cliente” operava su marketplace terzi, tutto sembrava andare bene, nessun intralcio se non qualche inceppo dal lato logistico. Il cliente pareva soddisfatto! L’e-commerce ha detto ben altro, facendo emergere il fenomeno del “carrello abbandonato”.

Lì per lì, il cliente non ci ha fatto caso a tutti quegli utenti che arrivavano ad un passo dall’acquisto e poi quando erano pronti in cassa per pagare improvvisamente uscivano dal “negozio” virtuale abbandonando tutto e tutti.

Un caso ci può stare, due casi ci possono stare ma quando i carrelli iniziano ad essere decine e ci si accorge che spesso ci sono serie di abbandoni di carrelli da parte dello stesso utente più volte, allora bisogna farsi delle domande. Il “cliente” ha chiamato l’agenzia che aveva progettato il sito e hanno lavorato duramente per migliorare l’esperienza del cliente ma … a questo punto il “carrello abbandonato” era diventato un tarlo del cliente

E a quel punto siamo arrivati noi, nel mezzo di una torrida giornata di luglio!

Chiacchierando con il “cliente” è venuto fuori questo tarlo e chiedendo quanti utenti avesse il suo ecommerce, quanti carrelli finalizzati avesse e il numero di carrelli abbandonati abbiamo chiesto …

“E perché non hai mai pensato alla marketing automation?”.

(Punto interrogativo che è rimasto sospeso sul tavolo un paio di secondi di troppo.)

Beh si dai, quel sistema di flussi che permette all’azienda che vende di iniziare a mandare email di richiamo, di sollecito, di ricordo, di invito. insomma una serie di mail differenti ai propri utenti in base ad una serie di “triggers”, attivatori di evento ..

Di fronte alla faccia interessata ma assolutamente ignara del cliente, ci siamo messi a spiegare come oggi, senza spendere valanghe di soldi in sistemi di marketing automation super strutturati, si possono creare flussi di comunicazioni automatiche facendo dialogare banalmente il sistema di ecommerce e un sistema di mail marketing.

sai, in base al comportamento dell’utente è possibile mandare una comunicazione (informativa, commerciale o di ringraziamento)  ai tuoi utenti che hanno fatto e/o non fatto una determinata azione nel sito. Non solo ma oggi puoi anche creare flussi che definiscono gli invii anche su base temporale: dopo 24 ore da questo evento mandi la mail T2, dopo 48 ore se è successo anche l’evento “A” mandi la mail T3A …“.

“OK! Sembra tutto molto complicato e astruso ma ti posso assicurare che è molto più complesso da descrivere che da realizzare e organizzare. Basta un po’ di testa, che tu ci spieghi come si comportano normalmente i tuoi clienti e il nostro programmatore che faccia dialogare un po’ di informazioni prese dal tuo sito al sistema di mail marketing.”

Va beh non vi tedio con i dettagli di quello che abbiamo fatto ma vi posso solo dire che dopo 45 giorni di flussi attivi non abbiamo più carrelli abbandonati ripetuti e per ogni utente che “si azzarda” ad abbandonare il carrello da qualche parte all’interno di quel negozio virtuale, oggi abbiamo una serie di cortesissime commesse virtuali che lo inseguono per tutto il negozio e provano a convincerlo a riprendersi il suo carrello e andare alla cassa!

Venghino siori venghino.

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I colori del tuo brand non li scegli tu

I am feeling blue, diceva sempre Marco, un mio vecchio compagno di università depresso quando voleva giustificare la sua pigrizia. Non è una cosa rara associare uno stato d’animo a un colore; quando uno si sente blu, tendenzialmente è un po’ giù, ma è una cosa che deriva in toto dalla cultura americana, qui in Italia è più facile usare il nero. Sono nero, se sono arrabbiato, di umore nero se sono anche un po’ triste.

Ogni colore infatti ha un significato. Non intrinseco solitamente, ma influenzato da fattori storico sociali, oltre che dalle immediate reazioni che stimola (ricordiamoci che anche in questo caso però c’è un retaggio culturale che le guida).

Quando decidiamo di che colore dipingere la nostra camera da letto o il nostro salotto, ci chiediamo che sensazione vogliamo che rimandi. Vogliamo il giallo per farci sentire allegri e creativi sempre, da quando ci alziamo a quando ci corichiamo la sera, e il verde in salotto per far sapere che il nostro animo è green, è eco-chic.

I colori e il loro significato

Sì, i colori parlano, non smettono mai di farlo e quindi dobbiamo riflettere molto bene prima di sceglierne uno per rappresentare la nostra azienda. Logo, sito web, immagine coordinata, sono già un messaggio implicito di ciò che siamo e di ciò che proponiamo al cliente, non solo in termini di offerta tangibile, ma anche di mood.

Si sprecano gli imprenditori che fanno del proprio colore preferito (o peggio ancora dei colori della squadra del cuore) i colori del proprio brand. Non è saggio, devo dirvelo. Non è una scelta che va fatta di pancia! Se l’irrazionalità è pericolosa già nei sentimenti, figuriamoci in affari, per carità. Esistono delle regole, non solo psicologiche ma anche banalmente estetiche.

I colori interagiscono tra loro, alcuni in maniera positiva per l’occhio e quindi per la nostra mente, altri in maniera meno efficace, se non fastidiosa.

Quindi step n.1 capire cosa vuole comunicare il nostro brand, senza fare l’errore di identificarlo con noi stessi o con le persone che ci lavorano. L’azienda è un’entità terza con la sua personalità che può essere anche volutamente molto diversa da noi come individui… se può tranquillamente esistere un titolare di pompe funebri molto allegro nel suo privato, difficilmente esisterà un’immagine coordinata di pompe funebri che sfrutti tutti i colori dell’arcobaleno. Business is business.

Pensate, inoltre, che esistono diversi livelli di complessità. Alla base ogni colore ha una inclinazione “naturale”, il rosso è energia, il viola è glamour, ecc. Ma l’immagine di un’azienda comprende quasi necessariamente più di un colore. E qui la faccenda si complica. E arriva lo step. n.2: la corretta scelta dei colori aziendali dev’essere necessariamente frutto di uno studio di mercato ragionato sulla volontà di posizionamento del brand e sulla capacità del cliente di coglierne le giuste intenzioni. Si tratta di un processo che non può avvenire leggendo questo articolo o guardando uno schema riassuntivo delle emozioni che i colori suscitano. Occorre fare uno step in più e rivolgersi a chi lavora da anni per studiare immagini aziendali coerenti e di successo.

Chiudi gli occhi e immagina la tua azienda in una grande stanza. Di che colore vedi le pareti e tutti gli arredi? Ripeti questo giochino con tutte le figure chiave della tua azienda, e magari anche con qualche cliente, e raccogli i loro commenti. Potresti scoprire quanto la realtà sia distante dalle aspettative e quanto tu possa aver bisogno di intervenire per avvicinare il percepito con il reale.

Non esitare a contattarci per parlarne insieme.

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Social Strategia

Tempi duri per Facebook? Ma non diciamo stupidaggini…

Oggi è facile sparare su Facebook!

Qualche settimana fa mi auguravo che Zuckerberg intervenisse sulla sua piattaforma prima che il Governo Federale lo facesse a tutela della famosa “sicurezza nazionale”. L’analisi di Wired US era implacabile nell’evidenziare come Facebook, se usato al meglio delle potenzialità (community aggregator & news feeder), oggi sia lo strumento perfetto per piegare la realtà e mettere a repentaglio alcune basi della democrazia moderna come noi la conosciamo.

Beh, non abbiamo dovuto attendere molto per vedere una vera e propria gogna mediatica catapultarsi su Facebook in tutto il mondo.

Oggi, leggendo i vari newsfeed, ho letto l’intervento sull’AGI di Arcangelo Rociola in cui il giornalista cavalca l’onda mediatica sfruttando anche il tweet irriverente di Mr Whatsapp, Brian Acton, che dall’alto dei suoi 10 miliardi di dollari ricevuti da Facebook, oggi si può divertire a proclamare a tutto il mondo “It is time. #deletefacebook”.

Chissà se il nostro amico Brian avrebbe lanciato questo tweet nelle fasi calde della trattativa che lo hanno reso miliardario o forse sarebbe stato più cauto nel chiedere la cancellazione di Facebook, almeno fino all’arrivo dell’ultimo bonifico sul suo conto corrente?

Quello che veramente mi sorprende oggi, e che mi sorprende fino a un certo punto, è la capacità di tutti di soffiare l’onda mediatica. Fino a ieri tutti schiavi di Facebook, se non eri su Facebook eri uno “strano”, e oggi tutti a chiedersi “cosa si potrebbe fare senza la dipendenza da Facebook”. Techcrunch ci racconta addirittura che “Facebook ci sta usando. Sta di proposito prendendo le nostre informazioni. Sta creando delle echo chamber nel nome della connessione. Fa emergere le divisioni e distrugge le vere ragioni che ci hanno portati all’uso dei social media: (distrugge) le relazioni umane. È un cancro”. Ma davvero? Non ve ne eravate accorti prima?

Tutti oggi urlano indignati che non è giusto che Facebook abbia venduto i dati a Cambridge Analytica. Oggi tutti vorrebbero la punizione esemplare per “Marco Montedizucchero” che è stato cattivo e ha fatto i soldi rubando le informazioni che le persone ingenuamente avevano inserito nella scatola di Facebook.

Ma l’avete letta la pagina di log in di Facebook? Se fosse sfuggito a qualcuno, c’è scritto “Iscriviti. È gratis e lo sarà sempre”. Gratis. Qualcuno ha veramente pensato che tutto quel giochino fosse sul serio gratis? Che la possibilità di archiviare tutta la propria vita, video, foto, pensieri, commenti, emozioni, amore, odio, parole… fosse tutto gratis?

L’altro giorno mia figlia, guardando una serie tv in streaming, a un certo punto mi ha stupito: non capiva perché continuassero a comparire popup a infastidirla mentre guardava gratuitamente un programma televisivo su internet (fruibile a pagamento alla televisione?). Ma davvero tutti abbiamo pensato che il “gratis per sempre” volesse semplicemente dire che non ci fossero interessi economici dietro? Che Facebook fosse un’enorme realtà filantropica interessata al bene del mondo e che volesse regalare nuove opportunità a persone che si erano perse nel tempo? Pensavamo veramente che Instagram fosse un enorme album fotografico dove l’utente nutre il proprio ego inserendo immagini il cui interesse è spesso limitato a pochissime persone?

Mi spiace andare sempre controcorrente ma penso che tutto questo odio mostrato oggi dalla gente nei confronti di Facebook sia assolutamente insensato e illogico. Conosciamo tutti aziende che hanno chiuso la propria presenza digitale per spostarsi sui social, conosciamo tutti persone che parlano agli amici a tavola tramite Whatsapp e post su Facebook, conosciamo tutti persone che non sanno trovare neanche la strada di casa e utilizzano Maps per non perdersi mai… ah no, scusate, Maps non è di Facebook ma è sempre gratis.

Ma veramente qualcuno pensa che possa esistere una struttura come Facebook completamente gratuita?

Al contrario di come la pensa Rociola e l’AGI, “…il monopolio della vita digitale di 2,3 miliardi di utenti nel mondo comincia a preoccupare… se il costo di un servizio è gratuito, il costo di quel servizio sono i tuoi dati. La tua privacy. Le tue opinioni. E il tuo voto, come nel caso delle campagne elettorali di Cambridge Analytica”, io credo che quello di cui dovremmo preoccuparci sia un’altra cosa: se Facebook chiudesse domani e dopodomani chiudesse Google, tutti torneremmo in una preistoria di comunicazione imbarazzante.

Senza Facebook le aziende non saprebbero come parlare con i propri clienti, senza Facebook le persone non saprebbero cosa succede attorno a loro, senza Facebook le persone non riuscirebbero a sapere quello che succede nel mondo, senza Facebook i giornali non saprebbero come rintracciare lettori. Se domani Mark Zuckerberg decidesse che ha fallito la sua missione e spegnesse i suoi server, saremmo tutti più liberi ma anche più poveri.

Senza Facebook dove andremmo a mettere le foto, i video, i  ricordi, i pensieri, le opinioni e le notizie? Come immaginate il vostro domani senza Instagram, Facebook e Whatsapp?

Brian Acton, con i suoi 10 miliardi dollari, può tranquillamente decidere di #cancellarefacebook. Tutti noi, invece?

P.S. ah, un’ultima cosa. Non è che Facebook mi stia simpatico o altro. Abbiamo provato a fare una campagna sul precedente articolo e Facebook ha respinto la campagna come “inappropriata”. Non sono simpatici, non sanno fare autocritica, ma per favore cerchiamo di ragionare!

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Sponsorizzate? Pagare i click non ha mai funzionato

Dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che piazzare un budget, anche alto, sulle sponsorizzate non basta più, forse non è mai bastato e comunque non dà i frutti sperati.

Perché?

Perché il social network, lo abbiamo detto in precedenza, è il luogo della condivisione in senso romantico. Il luogo per eccellenza del marketing emozionale, e di emozionale la sponsorizzata non ha proprio nulla. Soprattutto perché si vede.

Partiamo da una diffidenza di base dell’utente di fronte agli Adwords & co. Talvolta addirittura per principio, l’utente scansa il contenuto pubblicizzato in favore di quello organico, recepito come genuino.

Come se ci fosse del marcio nel pagare la visibilità, almeno in un mondo in cui possono averla tutti, puntando sulla qualità dei contenuti. Certo, nessuno dice che sia semplice. Messa così sembra addirittura meglio, pagare non serve… quindi la visibilità è gratis? Magari!

Innanzitutto è anche sbagliato sostenere che sponsorizzare le proprie pagine aziendali sia del tutto inutile. Va fatto nel modo e nei tempi giusti.

Inutile puntare solo sulle sponsorizzate per un business nascente e quindi sconosciuto.

Una visualizzazione di per sé non ha un grosso valore. O meglio: nel caso di un brand sconosciuto, ha un costo maggiore del beneficio che porta. Probabilmente non porterà ad alcuna interazione e sarà quindi infruttuoso poiché non aumenterà la credibilità recepita dell’azienda. Come giudicate quei desolanti post con 0 commenti e 0 reazioni che sono solo una becera esecuzione di un calendario editoriale sistematico e mal gestito? Tutti li giudichiamo per quello che sono: tristi.

Quindi dove è meglio spendere i soldi prima che per le sponsorizzate?

Bisogna partire da metodi, per così dire, tradizionali. Creare una base solida di reputation sul campo: investire sul content e avere clienti così soddisfatti da farci da ambassador.

Non ve la siete scampata dunque, i soldi vanno investiti e non le poche centinaia di euro delle sponsorizzate, ma ben di più. Soldi e tempo, perché i risultati non piovono dal cielo così come i click.

La SEO content creation costa cara, se fatta bene. Bisogna affidarsi a persone competenti e affezionate al progetto. Se fatta in modo approssimativo e mediocre, tanto vale non farla, perché ritorneremmo al desolante quadro 0 condivisioni 0 reazioni.

Il passaparola, croce e delizia di ogni azienda, nemmeno quello è gratuito. Bisogna prendersi particolare cura dei primi clienti (senza trattar male quelli a venire, per carità), ma consapevoli del fatto che quel di più che si “regala” ai primi lavori (in termini di follow-up e customer-care) sia anche un investimento pubblicitario, e non un’inutile spesa.

Solo creati i presupposti vale la pena mettere in budget la voce per sponsorizzate & Adwords, e ancora la strada sarà lunga per convertire i click ottenuti.
Dapprima sarà il caso di mettere nel target gli attuali clienti e simpatizzanti. Inutile? Direi di no, solo così i simpatici algoritmi che regolano la rete capiranno che siete affidabili, stimati e condivisi, abbassando il costo delle visualizzazioni che vorrete ottenere. Solo allora avrà senso allargare il target, poco alla volta e in maniera molto accurata, per evitare di fare passi indietro.

Non ci si improvvisa social media manager, eppure nessuno saprà davvero insegnarvelo. Perché i social media cambiano ogni giorno e hanno una storia troppo breve per essere chiamata tale. Ascoltate i consigli che vi sembrano più sensati e sperimentate, passateci le ore sulle piattaforme che volete sfruttare. Come pensate di poter giocare a calcio leggendo un manuale e senza aver mai toccato un pallone? Iniziate a palleggiare al parchetto e poi fate il vostro esordio sul campo vero. Giocando e sbagliando, si impara.

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Samsung VS Apple: who’s cooler?

Samsung ha chiamato in causa Apple nel suo ultimo spot. Citare i competitors sfruttando l’ironia non è una novità negli USA. Sono anni che i creativi di Pepsi tirano fuori dal cilindro pubblicità irriverenti o spiritose per avvalorare la tesi che Pepsi sia meglio del gigante Coca-cola. Basta ricordare l’emblematica scena di un bambino che di fronte al distributore automatico acquista ben due lattine di Coca-cola… ma solo per usarle come rialzo per arrivare a selezionare la tanto ambita Pepsi (il video)!

Samsung cita Apple in maniera decisamente più raffinata, però. Lo spot descrive l’evoluzione della telefonia nel tempo, evidenziando le carenze tecniche prestazionali di Apple. Dal 2007, l’anno del primo iPhone, fino a oggi. Il video mostra un ragazzo che di anno in anno rimane deluso dal suo telefono Apple, mentre la sua fidanzata vive un’esistenza felice accompagnata dal suo Samsung. Alla fine il protagonista cede e abbandona la Mela in favore di Samsung. Eloquente la scena finale in cui il protagonista incrocia lo sguardo di un ragazzo in coda per comprare il nuovo iPhone X, come a sottolineare che spesso scegliere Apple è una moda più che una scelta ragionata. Non per niente lo spot si intitola “Growning up”, crescere, come a dire che il melafonino sia roba da ragazzini…

Questo in USA, dove il mondo pubblicitario è più coraggioso e audace e funziona sui brand che hanno una personalità forte e riconoscibile. In Italia non si è soliti osare tanto, anche perché i marchi non hanno una così alta riconoscibilità.

Nel nostro Paese si osa meno, il massimo in termini di advertising sono le pubblicità comparative in telefonia, confrontando le tariffe delle diverse compagnie telefoniche oppure i valori delle acque minerali. Battaglie combattute a suon di particelle di sodio insomma!

Su internet, invece, le visualizzazione delle gajarde pubblicità made in USA spopolano anche nel nostro Paese. Segno che un po’ di coraggio e creatività in più non guasterebbe, come dimostra il grande seguito ottenuto dai marchi più coraggiosi in fatto di advertising e posizionamento social… vedi Ceres e Taffo!

E voi che cosa ne pensate?

Possiamo permetterci di osare in pubblicità qui in Italia o meglio il buon vecchio spot autocelebrativo?

Noi una preferenza ce l’abbiamo, ma non ve la diremo, ancora!

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Quale ruolo ha la pubblicità nell’educazione civile e sociale?

La domanda me la sono posta leggendo le critiche piovute addosso all’ultimo spot CocaCola destinato al pubblico medio-orientale (qui il video).

La pubblicità mostra un uomo arabo dare lezioni di guida alla figlia e offrirle una CocaCola per infonderle coraggio di fronte alle sue incertezze al volante.

Premessa: In Arabia Saudita il re Salman ha annunciato che anche le donne potranno guidare, cosa ancora vietata nel Paese che rimaneva così baluardo di arretratezza.

Ora… le critiche sostengono che l’azienda americana sfrutti la “conquista” di questo diritto per fare marketing. Ma un pensiero sorge spontaneo: e quindi?

Uno spot Coca-cola, come immaginerete, ha un’enorme diffusione e fintanto che non veicola messaggi “sbagliati” direi che il problema non sussiste. Partendo dal presupposto che non è compito della pubblicità educare alla parità dei diritti, di genere e quant’altro. Personalmente credo che implicitamente e involontariamente la pubblicità abbia un potere straordinario. In quest’ottica chi la crea e la produce può (e dovrebbe) supportare le cause civili. Ma come?

Non si tratta di schierarsi apertamente per alcun soggetto debole. Spesso la cosa migliore è usare setting e ambientazioni che normalizzino il contesto sociale ideale da “promuovere”. Sarebbe il modo migliore per “educare” gli spettatori/acquirenti.

In quest’ottica, CocaCola non solo non ha sfruttato nulla, semmai ha appoggiato e sostenuto la battaglia per la parità di genere in Arabia Saudita, mostrando una nuova realtà, attualizzando cioè il fatto che da giugno 2018 le donne potranno guidare.

Questa cosa la sanno fare molto meglio di noi all’estero. Su tutti i paesi scandinavi, che da anni combattono (senza armi) per la parità di genere. Semplicemente uscendo dagli stereotipi di genere che modellano il mondo dei giocattoli, influenzando le abitudini e le aspirazioni dei bambini fin da piccolissimi.

In Svezia, ad esempio, una famosa azienda di giocattoli ha reso il suo advertising gender neutral. Non ha fatto grandi sermoni sulla parità di genere, semplicemente ha dato per scontato che anche i bambini maschi potessero giocare a dare il biberon alle bambole e che alle bambine potesse piacere sparare con un finto fucile.

Banalizzando dei messaggi che – ad esempio qui in Italia – sono ancora futuristici, se non blasfemi, si fa la gran parte del lavoro per il cambiamento dell’immaginario comune, quindi per la sua evoluzione.

La pubblicità veicola messaggi. Che voglia o non voglia. Tanto vale che veicoli quelli giusti o presunti tali.

Ben venga la donna araba che si tracanna la CocaCola. Non fa torto a nessuno, ma cambia l’immaginario della donna araba chiusa in casa a educare i figli.

L’ADV non ha e non deve avere la pretesa di salire in cattedra. Ma può veicolare immaginari “migliori” rispetto agli stereotipi sessisti o peggio ancora razziali che spesso riportano.

Se si riesce a fare pubblicità bene e in modo etico, tanto di guadagnato soprattutto per chi la fa, perché oggi i consumatori non scelgono solo il prodotto, ma anche chi lo produce!

Ma tornando a parlare di colori… CocaCola ha scelto da sempre il rosso per il proprio brand. E voi?

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Netflix creepy? Potrebbe andare peggio, potrebbe twittare Pornhub!

Netflix ha tirato le somme dell’anno appena passato… e lo ha fatto a suo modo. Il team comunicazione dell’azienda californiana si è sempre distinto per la sua brillantezza e simpatia, ma questa volta ha aggiunto anche un pizzico di sarcasmo saccente al mix di ingredienti.

In un tweet dall’account Netflix US, l’azienda ha ironizzato sulle 53 persone che hanno guardato “A Christmas Prince” ogni giorno negli ultimi 18 giorni. “Who hurt you?” chiede Netflix agli spettatori compulsivi del film natalizio. E il pubblico in parte si indegna, in parte risponde di battuta in battuta.

Perché l’indignazione?

Come se non fosse ovvio che Netflix collezioni informazioni sugli utenti. È proprio il meccanismo di base che consente alla piattaforma di streaming di proporre una libreria ad hoc per ogni utente, basata sui suoi gusti, su ciò che ha già visto e che Netflix ovviamente conosce.

Di fatto moltissime aziende utilizzano big data e analytics per le loro campagne di marketing, o per migliorare i servizi. Solo che noi non ne siamo coscienti – e dovremmo, perché le privacy policy sono (quasi) sempre chiaramente espresse dalle aziende – eppure non ce ne rendiamo conto e ci stupiamo. Netflix ha usato i dati non solo per personalizzare il servizio di streaming ma, in questo caso, anche per il social media marketing. Possiamo dire che sia stata più trasparente di altre compagnie, al massimo, ma non meno rispettosa della privacy. Non ha fatto alcun nome o rivelato alcuna informazione sensibile che fosse riconducibile a qualcuno di specifico. In compenso è riuscita a chiamare in ballo i propri utenti in maniera ironica e forse un po’ provocatoria, cosa che non tutti hanno apprezzato, definendo Netflix addirittura creepy. Che sia stata ortodossa o meno, la gestione dell’account twitter di Netflix ha certamente creato un piccolo caso mediatico intorno alla vicenda e, trattandosi di marketing, si può dire che l’esperimento sia riuscito, dunque.

Anche un altro brand di successo ragiona con meccanismi simili ed è Spotify, che ha da poco avviato una campagna ads proprio basata su dati raccolti riguardo ai gusti musicali dei propri utenti.

Il concetto è molto simile a quello sfruttato da Netflix, eppure nessuno ha alzato la voce contro la piattaforma musicale più famosa del mondo. Perché ce la siamo presa tanto con Netflix? Perché ha messo in ridicolo lo spirito natalizio? Perché ci siamo sentiti chiamati in causa come se ci avessero preso in giro per le decine di volte che abbiamo visto “Mamma ho perso l’aereo”? O forse per pigrizia: è più facile replicare a un tweet che a un cartellone.

Alla fine l’utente più illuminato di tutta questa polemica è PitchforksAtTheGate, che risponde così: “Could be worse. @Porhub could be tweeting…”

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Strategia Tendenze

Marketing Automation? Sì, ma fatta bene

Oggi voglio spiegarvi cos’è la Marketing Automation per me e a cosa serva all’atto pratico. In poche parole, il termine Marketing Automation indica l’utilizzo di software che servono ad automatizzare specifiche attività di marketing. Lo scopo è snellire e migliorare il nostro modo di acquisire nuovi clienti in modo automatico.

Cosa rappresenta per me la Marketing Automation?

Questo strumento mi permette innanzitutto di implementare l’efficacia di ogni strategia programmata ottimizzando le tempistiche, poiché l’attuazione è veloce senza compromettere l’autenticità dei contenuti, che restano quelli prodotti dalla mia azienda.

Inoltre, è un aiuto concreto nel raggiungimento dei miei obiettivi di business.

La Marketing Automation permette di incrementare le entrate della mia azienda e quelle dei miei clienti guidando il traffico verso il rispettivo sito web, acquisendo nuovi contatti che quindi diventano potenziali clienti.

Il centro di questa strategia è proprio la conversione di contatti in clienti. Per noi, professionisti del settore, è fondamentale imparare a usare bene questi strumenti perché ogni errore inciderà direttamente sulla nostra immagine o, peggio ancora, su quella dei nostri clienti. E, detto tra noi: chi ha davvero voglia di passare al telefono mattinate intere ad ascoltare le lamentele di un cliente e interi pomeriggi a risolvere tutto?

A tal proposito ho pensato che, condividendo alcuni consigli basati sulle mie esperienze professionali, avrei potuto fornire linee guida importanti.

Noi abbiamo provato sui nostri clienti alcune attività di automation e vi posso assicurare che ci sono stati risultati incredibili. A una condizione, però: che il traffico sia gestito in maniera adeguata altrimenti, anziché tanti potenziali clienti, otterremo solo persone insoddisfatte!

Il primo consiglio è di non intraprendere strategie di automatizzazione senza aver prima ridefinito i vostri obiettivi. I nostri propositi possono e devono variare a seconda della strategia che decidiamo di usare. Questi strumenti non devono condurci a strategie che non porteranno benefici ai nostri clienti. Dobbiamo avere sempre ben chiare le loro richieste.

Un altro suggerimento è di integrare alle strategie di Automation Marketing quelle di Inbound Marketing. Bisogna continuare a fornire contenuti utili e interessanti anche quando si usa un software per l’automatizzazione.

Infine, lasciate perdere i messaggi generici: sono fastidiosi e inutili. Se volete buoni contenuti, fateli scrivere a chi lo fa di mestiere: affidatevi a un copywriter. Lui saprà raggiungere il target che i vostri clienti vogliono catturare. Saprà cosa dire e come dirlo.

L’ultimo consiglio riguarda proprio la relazione con i vostri clienti. Prendetevi cura di loro. Letteralmente. Ascoltateli per ore, giorni e anche mesi, se necessario. Rispettate i loro desideri e indirizzateli verso le scelte più convenienti. Incoraggiateli con il vostro lavoro e fate in modo di diventare tanto indispensabili da spingerli a chiedere il vostro aiuto anche in futuro.

Avete bisogno di un team di esperti? Noi lo siamo e sapremo guidarvi verso la strategia più adatta per il vostro brand.

La nostra professionalità è al vostro servizio e la nostra pazienza infinita.

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Tu vuo fa l’americano, ma anche no!

Black Friday, Best Price, Brand, Fee, Concept, Brand Essence, Copywriter, Testimonials, ecc. Il mondo della pubblicità è infarcito di inglese. Giusto o sbagliato? Come avrete capito se vi è già capitato di leggere i miei articoli… dipende!

L’inglese è una bomba: chiaro, conciso, comunicativamente efficace. Ma sappiamo dove fermarci?

Ragioniamo sulla lingua e i suoi significati correlati. L’inglese è la lingua più associata alla tecnologia per ovvie ragioni: la Silicon Valley e tutto il know how made in USA. Da quando esistono i PC insomma… e come volevamo chiamarli, calcolatori personali? Davvero?

Un’ondata troppo ricca di oggetti e concetti nuovi perché le varie lingue – non solo quella italiana – producessero i relativi termini facendoli diventare di uso comune. Inoltre, gli oggetti un tempo riservati all’ambito lavorativo oggi sono diventati device alla portata di tutti, bambini compresi.

Ok, quindi passino termini come mouse, personal computer, smartphone, wireless etc., arrivati prima che fosse possibile contrastarli e assolutamente funzionali al proprio utilizzo.

Ma non sempre è utile abusare della lingua anglosassone. Ad esempio, come vi suona l’Italian Bakery vicino a Porta Venezia a Milano? Diciamolo: un po’ stona. Soprattutto se consideriamo che, in fatto di cibo, l’italiano è la lingua più diffusa per dare lustro e riconoscibilità alle attività che si occupano di ristorazione.

Quanti Peppino, Gennaro, Pizza & Pasta, avete visto nei vostri viaggi all’estero? Questo significa che un idioma porta con sé la sua cultura di riferimento, le sue caratteristiche più forti. La lingua italiana può solo essere di supporto alla causa del buon cibo.

Nonostante il concetto di slow-food volesse contrapporsi all’emulazione USA delle grandi catene dove il cibo è solo consumo, lo ha fatto mutuando un termine della lingua da cui avrebbe dovuto discostarsi. In quel caso, però, il gioco provocatorio basato sugli opposti slow/fast reggeva e vinceva l’incoerenza della scelta.

Ma i veri vincitori della guerra tra hamburger sono stati i fondatori dell’azienda piemontese Mac Bun, una agrihamburgeria che serve carne di Fassone di prima qualità. Il nome in piemontese significa “solo buono” ma, per la sua assonanza con la catena di fast food americana, ha subito addirittura una diffida da Mc Donald’s e ha dovuto così autocensurarsi in M** Bun. Ma ormai la macchina del marketing era bella che avviata e la minaccia del pagliaccio giallo non ha fatto altro che accrescere la fama dei ristoranti M** Bun.

Quindi se Italiano sta a cibo, ed è altrettanto assodata l’equazione Inglese/tecnologia, credo si possa giustificare anche quella Inglese/pubblicità. Gli USA sono i consumatori e produttori per eccellenza di advertising e ne hanno da insegnare a tutto il mondo. Va bene allora mutuare concetti che abbiamo appreso decenni dopo di loro, come quelli con cui ho aperto questo articolo. Va bene anche perché strizzano l’occhio al cliente e danno l’aria di conoscere i misteriosi meccanismi del marketing, e in effetti è proprio così.

Tutti gli ambiti tecnici hanno i loro linguaggi specifici, spesso orientati verso l’una o l’altra lingua. Così come i termini medici e scientifici trovano origine ed etimologia nel latino e nel greco, così fenomeni e attività più recenti si accostano più naturalmente all’inglese. Niente di male.

Ma attenzione: non lasciamo che in ogni ambito la comunicazione si appiattisca sull’inglese. Sarebbe fuorviante e talvolta ridicolo, macchiettistico, come l’Italian Bakery di Milano.

E soprattutto non abbiamo la pretesa di conoscere l’inglese perché appiccichiamo qua e là alcuni termini all’interno del nostro discorso. Ricordiamoci con umiltà che la lingua non è fatta solo di termini, ma anche di regole grammaticali e sintattiche. Ma aggiungere una “s” a un termine inglese per farne il plurale non ci rende più british, ma solo più ignoranti.

Ancora una volta la risposta alla domanda iniziale, in questo caso English or not?, è sì, ma attenzione. Sapere l’Inglese è cosa diversa da sfruttarne i termini solo per parlare di marketing e adv o per produrne i contenuti. Ma questa è ancora un’altra storia.