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La fiducia.

Oggi il mio socio mi ha raccontato un episodio singolare. All’uscito del casello è stato affiancato dalla Stradale che gli ha contestato il fatto che non avesse la cintura allacciata. La sua risposta è stata “Agente, io allaccio sempre la cintura ma se lei mi dice che ha visto che ero senza cintura, è il suo lavoro quello di controllare quindi mi fido ed è corretto che mi faccia il verbale”. La risposta dell’agente è stata singolare ma ahimé quasi attesa: “mi sta prendendo in giro?”. 

Vedete, un poliziotto della Stradale fa questo di mestiere. Controlla che sulle strade gli automobilisti rispettino le regole e guidino il loro veicolo nel migliore delle maniere. Il fatto che il gesto che forse ha insospettito l’agente fosse il chinarsi per prendere una sigaretta poco conta. Una persona esperta, incaricata di controllare che i guidatori rispettino le regole ha visto qualcosa di non corretto ed è intervenuto.

Perché racconto questo? Perché alla base di qualsiasi lavoro fatto bene c’è sempre la fiducia. Quando prendiamo un aereo, ma anche un treno, una nave, un autobus, diamo a chi guida totale fiducia che ci porti a destinazione. Quando chiediamo ad un professionista un intervento nel suo campo, attendiamo con fiducia il suo responso ed agiamo in conseguenza alla sua risposta. E questo vale dal medico all’elettricista, dall’architetto al meccanico.

Sfortunatamente, per qualche strano motivo nel marketing e nella comunicazione, abbiamo tutti la sindrome del “Commissario Tecnico della Nazionale”. Tutti diciamo che abbiamo bisogno di un esperto ma poi quando ci viene consigliata una serie di azioni, non abbiamo fiducia nell’esperto e decidiamo di fare da soli. 

Se ci chiedono come commercializzare al meglio il prodotto nel mercato digitale e ad esempio rispondiamo che al momento la soluzione migliore è Amazon, non stiamo dando un consiglio da amico. La nostra risposta è basata su competenze specifiche che abbiamo maturato negli anni e che ci fanno dare una risposta piuttosto che un’altra. La comunicazione oggi è sempre più complessa e non banale da gestire.

Se chiedi un parere ad un professionista e decidi di pagare una fattura per le indicazioni, le tattiche e le strategie che ti fornisce, vuol dire che riconosci in lui una competenza che tu non possiedi. Sei un imprenditore, un direttore, un manager, non è il tuo lavoro occuparti di comunicazione.

Se chiedi un’opinione a qualcuno a cui riconosci una conoscenza, devi essere pronto a fidarti di lui. Se ti dice di andare a destra, la destra è la strada corretta. Se ti fermi in mezzo di strada e ti metti a discutere sul perché andare a destra invece che a dritto o a sinistra o indietro, stai perdendo il tuo tempo e quello del tuo consulente. 

Se un agente della stradale ha visto qualcosa di non corretto nel tuo modo di guidare, probabilmente non te ne sei accorto ma qualcosa è successo. Lui sta facendo il suo lavoro di proteggere te e gli altri mentre siamo alla guida. Quando chiedi ad una agenzia di marketing cosa fare per vendere di più e ti danno un piano di azione. Agisci. Il nostro lavoro è proteggere te e la tua azienda mentre stai facendo il tuo lavoro. 

Fidati di chi ne sa di più di te, lo hai pagato per questo alla fine dei conti.

Fidati di chi ne sa di più di te, lo hai pagato per questo alla fine dei conti.
Photo Credit: Pexel; Polizia di Stato
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Questo foglio bianco sei tu.

Aiutaci a scrivere la comunicazione della tua azienda.
Oggi abbiamo deciso di rinnovare il nostro look grafico. Ormai è da un bel po’ che abbiamo definito il nuovo logo ma come sempre “il ciabattino ha le scarpe rotte” e abbiamo lasciato la nostra comunicazione ben ultima di fronte alle esigenze dei nostri clienti.
Cambiamo look ma la base del nostro lavoro è sempre la solita. Un paio di anni fa, in un incontro con un nostro cliente, venne fuori come battuta il fatto che nella seconda pagina della nostra presentazione doveva esserci un foglio bianco con la scritta

“questo foglio sei tu, aiutaci a costruire la comunicazione della tua azienda”

Quella che era una battuta per Marco, oggi è diventato il DNA del nostro lavoro e di come approcciamo ogni singola sfida posta dal cliente.

Per anni, da cliente, ho ricevuto presentazioni da agenzie di comunicazione e pubblicità composte da centinaia di pagine che si capiva immediatamente essere frutto di cannibalizzazioni di decine di altre presentazioni realizzate per altri clienti. A volte è capitato di leggere documenti con addirittura il nome di un altro cliente in qualche testo sfuggito all’aggiornamento. Io non dico che questo tipo di approccio sia giusto o sbagliato. Noi però non siamo così.

A noi non piace concentrarci sugli strumenti. A noi piace concentrarci sul perché è necessario fare un’azione o un’altra. In questi ultimi sei mesi, da quando abbiamo finalmente fatto chiarezza sulla nostra vision, mission e target market, ci siamo resi conto che il “perché” comprarci è diventato più importante del “cosa” comprarci.

Ed è proprio per questo che sempre di più in questi mesi abbiamo realizzato progetti, proposte, preventivi che partivano dall’analisi della strategia per il cliente, partivano dall’analisi degli obiettivi, dei risultati, dei prodotti, dei perché un prodotto viene acquistato da un cliente, piuttosto che sullo strumento da usare per promuovere il cliente.

Il foglio di carta bianca è diventato il nostro più potente strumento di presentazione. Spesso ci capita ultimamente di dire “abbiamo anche tutte le competenze per seguire tutta la parte operativa” e sembra quasi un’aggiunta a quello che abbiamo detto o una spiegazione di quello che abbiamo detto. 

Sappiamo fare un sito? Si. 
Sappiamo creare una presenza digitale corretta? Si.
Sappiamo lavorare sui social per raggiungere gli obiettivi richiesti? Si.
Sappiamo lavorare sulla grafica e sull’immagine coordinata? Si.
Sappiamo scrivere i contenuti e creare una reputazione positiva per il cliente? Si.

Ma non è questo che ci rende differenti. Queste sono cose che tutte le agenzie di comunicazione sanno fare. Alcune bene, alcune benissimo, alcune hanno spazi di miglioramento.

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Self scan check-out: ecco cosa non ha funzionato

Quando la tecnologia anticipa il marketing, il rischio è quello di arrivare sul mercato impreparati. Esattamente cosa è successo con la SCO nella grande distribuzione.

Non so voi, ma io quando vado al supermercato, quelle rare volte, ho il terrore. Riesco ad andare chiaramente solo il sabato pomeriggio o all’uscita dall’ufficio, insomma il classico orario in cui le corsie sono strapiene, figuriamoci le casse. Fortunatamente la tecnologia ci viene incontro e molte catene hanno introdotto la tecnologia SCO, cioè self scan and check-out. Per intenderci le casse automatiche, oppure, ancora meglio, il terminale per scannerizzare la merce man mano che viene introdotta nel carrello; così a fine spesa non rimane che pagare e correre a casa per cena. Si, ma. Io, per esempio, vivo la spesa con l’ansia. Sistemo il mio terminale al carrello, scannerizzo con attenzione tutto, sbaglio, allora tolgo, attendo la risposta del terminale che a volte è decisamente poco agile, riprendo la mia gita tra le corsie. Poi arrivo al momento di pagare e….tac. Scatta il controllo carrello. E anche lì, sudo. Non che io sia una dedita ai furtarelli per carità, ma è praticamente impossibile che non si verifichi qualche incongruenza, magari hai passato 8 confezioni di pasta e non 9, per una banale distrazione. E poi son lì che metto la roba sul nastro e penso, “Ma che diavolo lo mettono a fare il terminale SCO se poi controllano quasi ogni carrello?”.

Con questa domanda in cima al carrello della spesa torno a casa, mi informo un po’ e svelo l’arcano. Questa tecnologia di self check-out non sta dando i frutti sperati, non ancora almeno. A detta della ricerca Self-Checkout in Retail: Measuring the Loss condotta da ECR Community Shrinkage and On – Shelf Availability Group, supportata da Checkpoint Systems,  risulta che i punti vendita dove il 55-60% di transazioni avvengono tramite tecnologie SCO registrano il 31% in più di differenze inventariali. Cifre non da poco! E non si tratta sempre di errori di distrazione. Ovviamente c’è anche un briciolo di malizia in qualche avventore che spera di farla franca. In realtà i controlli ci sono e sono massicci. L’altro giorno mi trovavo, appunto, in un punto vendita di una grossa catena di supermercati e di fronte ad un’anziana coppia indispettita per il controllo del carrello, la cassiera spiegava: “se fate la spesa solo una volta al mese con il sistema SCO, la prassi è il controllo del carrello”. Allora mi sono chiesta a cosa serva tutta questa automazione se alla fine della fiera i controlli avvengono su un’altissima percentuale di carrelli. E il risultato? Perdite dovute a furti, distrazioni e quant’altro. Insomma, non un grande affare sembrerebbe!

Eppure l’automazione nel campo della GDO potrebbe essere un ottimo investimento. Il tempo è prezioso, lo sappiamo bene. Cosa non ha funzionato allora? Probabilmente la tecnologia è arrivata prima del marketing e della pianificazione strategica. Corre veloce la tecnologia, ma se usata o gettata sul terreno sbagliato e non adeguatamente pronto ad accoglierne il seme, non solo può essere poco produttiva, ma addirittura dannosa.
Quello che serve è una buona campagna informativa sulle possibilità esistenti, in modo che i clienti possano sfruttarle al meglio, ma anche una buona educazione per un utilizzo corretto dei terminali di self check-out. Infine anche dal punto di vista tecnologico, non siamo ancora arrivati, strada da fare ce n’è. I terminali hanno software spesso lenti, che stufano o che facilitano la “dimenticanza” nello scannerizzare un articolo, le batterie a volte non sono adeguate. Tipo, scannerizzi circa 120 articoli, ti dirigi fiero verso la cassa automatica per pagare tutto quel ben di dio e… il terminale si spegne. Batteria scarica. Tutto da rifare. E ti avvii tristemente verso l’infinita coda dell’unica cassa aperta, dove ad aspettarti alla fine dell’interminabile attesa ci sarà una cassiera esausta che non va in bagno da circa 8 ore. Insomma, la prossima volta la spesa la farei online.

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Trenitalia e loyalty program: scivola sull’8 marzo

In questi giorni è sulle bacheche di tutti la gaffe di Trenitalia in occasione dell’8 marzo. L’iniziativa in questione prevede un gentile omaggio per le signore che consiste in una caramella al limone. Una caramella al limone. E non per tutte le viaggiatrici ma solo per le fortunate che viaggiano in executive o consumano un pasto presso il vagone ristorante, salvo esaurimento scorte. Insomma non un grande affare e certamente non una gran figura.

Come mai?

Partiamo dal presupposto che il tasto è dolente e per toccarlo Trenitalia avrebbe dovuto prepararsi meglio. L’8 marzo è una ricorrenza molto sentita e soprattutto oggi, sull’onda dei vari movimenti di rivendicazioni femminista di massa come il Metoo o Non una di meno. C’è da aspettarsi che qualsiasi iniziativa che riguardi questa giornata sia al vaglio delle stesse associazioni femministe.

La critica è quindi politica e sociale. Caramelle regalata solo a chi spende di più, alle altre non è concesso l’omaggio che celebra il loro essere donne.

Ma noi vogliamo analizzare un ulteriore aspetto della vicenda ed è il flop a livello di reputation e marketing. Vediamo insieme quando si utilizzano omaggi e promozioni per fare del buon marketing.

Parliamo per prima cosa di una prassi molto amata dagli italiani: i campioni omaggio!
I giovani rincorrono le hostess che distribuiscono sigarette o Redbull e le signore più in là con gli anni dimostrano eterna gratitudine a chi allunga loro un campione omaggio di crema antirughe, che regolarmente comprata costerebbe una buona fetta di pensione.
I campionoi omaggio funzionano, sia perché sono altamente democratici (vengono distribuiti a tutti indistintamente) e ci fanno assaporare qualcosa nella speranza che non potremmo più farne a meno. E a volte funziona, se il prodotto è davvero valido.

Un altro tipo di promozione è quella che si basa su scontistica, quindi denaro. In tal caso si fa leva sulla convenienza dell’affare, così conveniente da spingere all’acquisto anche di un prodotto di cui non si ha reale necessità o che non è di qualità eccelsa. Funziona più per le vendite una tantum che per la fidelizzazione del cliente.

Un discorso più complesso va fatto poi per i loyalty program che sono per loro natura continuativi e mirano alla fidelizzazione del cliente intrecciando anche diverse promozioni, dagli omaggi, agli sconti, alla semplice comunicazione diretta per coinvolgere il cliente in maniera diretta ad esempio sul miglioramento dei servizi/prodotti aziendali.

Possiamo semplificare dicendo che l’iniziativa Trenitalia potrebbe rientrare in un programma loyalty, ma diciamo anche che lo stanno facendo nel modo sbagliato. Loyalty vuol dire fedeltà, lealtà. Fiducia in senso lato.

Quando si omaggia qualcosa o si propone uno sconto, la fiducia sta nel patto che cliente e fornitore siglano silenziosamente. Fidandosi che lo sconto sia reale e la merce buona. Una caramella, in questo caso sicuramente omaggiata da Caffarel il cui nome appare in evidenza nel lieto annuncio, non sembrano un grande regalo alle donne clienti di Trenitalia. Intendiamoci le caramelle vanno benissimo se distribuite, a tutte, senza troppa pubblicità come gentile pensiero disinteressato. Ma fare del marketing sul nulla e riservando i benefit a un target molto ristretto di persone a fronte di una festa che invece riguarda indistintamente tutte le donne, è un brutto autogol da parte di un’azienda pubblica come Trenitalia.

A Trenitalia per fortuna lo hanno capito e l’annuncio è presto sparito dal loro sito internet, anche se rimane ben diffuso e deriso nel web che come sappiamo non dimentica. In compenso il suddetto annuncio ha lasciato posto a quello dello sciopero nazionale del personale del Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane indetto per la giornata dell’8 marzo.

Le Frecce però circoleranno normalmente, zeppe di squisite caramelle al limone.

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Alibaba e l’omnichannel

Alibaba l’unico vero gigante omnichannel

Alibaba, colosso e-commerce cinese, ha tanto da insegnare e recentemente fa scuola su tutti i fronti.

Intanto per chi non lo sapesse il marketing omnichannel è quel marketing trasversale a più canali. Non solo, è un po’ come una teoria pacifista del mercato. Un modello per cui commercio online e offline non si cannibalizzano tra loro, ma anzi collaborano nella creazione di un unico mercato sempre più fruttuoso e allargato.
Qui da noi è una teoria piuttosto utopica. Siamo abituati a dividere le persone in due categorie: i pigroni che comprano online e quelli all’antica che vanno ancora nella bottega sotto casa. In mezzo? Il nulla. Chiaramente non è così, e una via praticabile esiste.

Ma vediamo cosa sta combinando egregiamente Alibaba.

C’è da premettere che le idee chiare già le aveva qualche anno fa, quando nel 2009 Jack Ma, fondatore del colosso cinese, scriveva in una missiva agli azionisti che in futuro l’e-commerce da solo sarebbe stato destinato a morire, se non si fosse alleato con altre forze. In particolare il quadro perfetto già prevedeva: online, offline, piattaforme logistiche e big data.
Mai previsione fu più precisa. Per farla divenire realtà, Alibaba acquista una piccola catena di supermercati, Hema, e la rivoluziona per consentire ai clienti del negozio fisico un’esperienza integrata digitalmente. I consumatori possono acquistare la merce mediante l’app e ricevere gratuitamente la spesa se vivono nel raggio di 3km dal negozio fisico, oppure la si può ritirare bella che pronta in un determinato orario: addio code e stress da corsia. Il negozio non è più solo un punto vendita, ma diventa piattaforma logistica. Infine si può anche scegliere la spesa fisica in negozio e la consegna a domicilio. insomma ce n’è per tutti i gusti e per tutti gli umori. Infatti i consumatori non sono più divisi in barricate, ma l’acquirente, magari anziano, che solitamente ama recarsi al negozio di persona e toccare con mano il prodotto può tranquillamente farlo senza poi doversi spaccare la schiena o chiedere aiuto a volenterosi giovanotti, che solitamente esistono solo nei film, desiderosi di portare le borse all’anziana signora.

Cosa accomuna i differenti modi di acquistare? un unico profilo utente. Un unico login. Da Hema infatti non esiste il pagamento in contanti ma solo via Alipay, il paypall dedicato di Alibaba. Non esistono dunque consumatori anonimi. Gli acquisti entrano tutti a far parte di un enorme database che organizza le info su cosa, come, con che frequenza acquistiamo. Un bell’affare per Alibaba. 800 milioni di utenti registrati in Cina e se a questo uniamo la forza dei cookie, capirete che quello di cui stiamo parlando è una fonte di ricchezza non trascurabile.

Per ora i risultati sono impressionanti: i clienti Hema acquistano mediamente 4/5 volte in un mese, con una conversione all’acquisto del 35% nell’app dedicata. Non male insomma quest’omnichannel.

E noi dove siamo rimasti? Probabilmente a sbuffare per le code in cassa il sabato pomeriggio, ma poi la spesa online, non sia mai, altrimenti poi come facciamo a lamentarci?

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E se tornassimo a vendere prodotti e soluzioni invece dei like?

Qualche settimana fa su Gartner for Marketers ho trovato un interessante articolo sulla centralità del cliente e su tutto quello che il marketing dovrebbe fare proprio per mettere al centro il proprio cliente.

Come al solito Gartner è sempre in grado di fare la differenza e gli spunti che si possono prendere da questo tipo di articoli sono sempre molti.

La prima cosa che mi ha colpito sicuramente è la questione del linguaggio. Il linguaggio del marketing sta lentamente alterando la nostra percezione del cliente, incoraggiandoci a pensare al cliente come un numero e non ad una persona da soddisfare.

Ogni giorno in ufficio usiamo parole come “content”, “engagement”, “conversion” ma a casa diciamo mai a nostri figli “vuoi guardare un buon contenuto su Netflix?” oppure “sei stato ingaggiato dal post di tizio”? “il tuo tasso di conversione al video di Youtube è stato adeguato?”

Scherzi a parte, ogni azienda oggi ha una “strategia di engagement” per creare “rapporti più stretti con il cliente” con una “content strategy” per rendere il proprio brand “top of mind”. “Autentiche relazioni con il cliente”, “personal branding”, “influencing”, “data driven creativity”, “channel marketing”, “integrated planning” … e si potrebbe andare avanti per ore. Tutte cose utili per il brand, ma assolutamente poco utili per il cliente.

Una persona ha circa 500 brand (ma perché li chiamo brand e non marchi, maledetto gergo del marketing!) che girano attorno alla propria quotidianità. Dal mangiare alle comunicazioni, dalla cucina alle macchine, dalla TV al tempo libero. Con quanti di questi marchi vuoi essere “ingaggiato” oggi? Con quanti di questi marchi cerchi attivamente e regolarmente informazioni da leggere, vedere, ascoltare e trovare “contenuti rilevanti”? Quanti di questi marchi sono così importanti per la tua vita da renderli “top of mind”? Con quanti di questi marchi tu vorresti investire il tuo tempo e la tua attenzione per “legarti” e costruire una “un’autentica relazione” ed essere influenzato nella tua vita?

Non so voi ma la mia risposta di pancia è … zero?

Molti marchi sono convinti della centralità del brand nei confronti dei clienti da pensare che le strategie incentrate su impression, click e conversion siano quello che il cliente cerca, senza considerare assolutamente i desideri, i bisogni e i motivi per cui un cliente compra un determinato bene. Il brand al centro è diventato il mantra del marketing oggi. Ieri il cliente era al centro, oggi pensiamo a clienti in cerchio adoranti un marchio che soddisfa i loro bisogni.

Purtroppo sempre più spesso ci dobbiamo confrontare con il fatto che tra il “mi piace” e “ti compro” c’è un abisso importante che non si scala semplicemente con il gergo del marketing. Se un cliente ti compra è perché ha bisogno del tuo prodotto, se ti sei concentrato sul “mi piace”, sul sogno, sulla “impressione” e non sei stato in grado di spiegare quali sono i bisogni a cui il tuo prodotto risponde, molto probabilmente avrai tanti click sui tuoi social, tanti accessi sul tuo sito, ma poche vendite.

Proviamo a tornare nei panni del cliente, parlare come parlano le persone normali, quelle che comprano il tuo prodotto.

·        Io, Cliente

·        con questi bisogni, desideri e motivazioni

·        in questa specifica situazione

·        che conosco il tuo marchio

·        voglio interagire con il tuo marchio per questa motivazione

·        ed ottenere questo beneficio

Sei tu il marchio che risponde a questa facile domanda?

Si può parlare per ore di “customer perspective”, di “buyer persona”, di “customer journey”, di “customer experience”, di “loyalty” e di mille altre tecnicismi del marketing ma se non siamo in grado di rispondere alla domanda qua sopra, tutto quello che stiamo facendo per il marchio è finalizzato all’ego del marchio stesso e non a “far comprare il prodotto” che visto nell’ottica dell’azienda pare trasformarsi in “vendere”.

Per quanto possa sembrare strano, il marketing non è solo comunicazione. Non è solo immagine. Non è solo like. Marketing significa “andare sul mercato” e le aziende devono tornare a capire che sul mercato ci si va con prodotti, con servizi, con qualcosa che risponde ad un bisogno e ad una domanda di un cliente, che ti paga per risolvere un suo problema.

Pensiamo come clienti. Compriamo quello che ci serve. Non quello che ci piace.

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YouTube e i video saranno ancora al centro del marketing nel 2019

Come di consueto il primo post dell’anno nuovo non può che parlare di tendenze e buone intenzioni. Quest’anno però non vogliamo fare un elenco generale, ma parlarvi di un solo aspetto che caratterizzerà marketing e comunicazione in maniera preponderante: il video. Sai che novità, direte voi. In effetti non è la scoperta dell’acqua calda, ma vogliamo approfondire il topic perché i video sono destinati a rimanere sulla cresta dell’onda e a farsi spazio ancora più prepotentemente nel mondo della comunicazione commerciale.

Abbiamo già accennato a come Instagram abbia rivoluzionato il modo di fruire i video. La visualizzazione verticale, prima di tutto, ma anche le implicazioni trasversali legate alla fruizione quasi esclusivamente da mobile, stanno cambiando le regole del gioco. Cambiano gli utenti e il tipo di attenzione dedicata ai prodotti visivi a misura di social. Instagram è spesso e volentieri un riempitivo, più dell’antenato YouTube, destinato a essere fruito in metro, ai semafori e nei ritagli di tempo, anche minimi. La visualizzazione è più rapida o meno attenta, ma il numero di video caricati e di utenti attivi aumenta vertiginosamente. Conseguenze? I video non sono più lungometraggi che necessitano di molte ore di pre e post produzione. Vanno pensati, girati e pubblicati rapidamente, pena: arrivare secondi o peggio ancora, risultare non attuali, vecchi. Fortuna che esistono gli smartphone a garantire un’ottima qualità video senza necessità di grandi strumentazioni tecniche, tenendo conto, inoltre, che i video in questioni saranno nella maggior parte dei casi riprodotti su uno schermo che va dai 5 ai 7 pollici. In definitiva viene premiata la reattività, l’attualità e la veridicità del video, piuttosto che l’estetica. Questo è dovuto anche al fatto che difficilmente si tratta di prodotti simil-cinematografici, quanto più di videocommenti, o anche piccoli sketch nel caso di Instagram

Abbiamo accennato al Tubo, che molti davano per spacciato, sbagliandosi, a causa dell’avvento prima di Facebook e poi di Instagram. Ma il bello delle tendenze tech è che sono imprevedibili. E dopo l’esplosione del social network creato da Zuckerberg e la sua recente frenata, in favore di Instagram, quello che sta accadendo è un rinvigorimento della piattaforma completamente dedicata ai video, anche di lunga durata. Molti youtuber tirano un sospiro di sollievo, avendo basato la loro professione proprio su views e popolarità. Certo la concorrenza è spietata.

Ma il marketing 2019 sembra non poter fare a meno dei suoi influencer ed è disposto a investirci anche in maniera massiva. Secondo una ricerca promossa dallo IED di Milano che prende in esame la realtà italiana, è emerso che il 64% delle aziende intervistate si è rivolto nel 2018 a degli influencer: lo ha fatto l’80% delle multinazionali, il 57% delle PMI e almeno una startup su due. A chi pensa che per fare  risultati occorra per forza scomodare la Ferragni, si sbaglia! Gli influencer in Italia sono centinaia, migliaia. Non tutti hanno un seguito massivo come i top-player che chiedono decine di migliaia di euro per un unico post, ma anche gli influencer minori che si “accontentano” dei prodotti gratuiti in cambio della loro sponsorizzazione, possono dare una mano alla crescita aziendale, soprattutto per quanto riguarda brand awareness ed engagement. La pubblicità tradizionale, quella da spot televisivo (a potersela permettere) funziona solo a fronte di investimenti alti sia per la realizzazione che la messa in onda e con gli ascolti televisivi in calo, vale ancora la pena?

Al contrario sui social, ci siamo tutti. Forse ci dedichiamo solo qualche minuto al giorno e forse un po’ distrattamente, ma il bacino di utenza è immenso! Un influencer non deve per forza essere una star. Lo dice il nome stesso, deve essere una persona influente per i motivi più svariati e non è detto che il suo essere una persona “comune” non sia un punto di forza che può rendere, talvolta, più naturale e apprezzato il lavoro svolto, la recensione o la sponsorizzazione per chi ne fruisce. Inutile a volte lanciarsi in investimenti massicci e poco studiati per arrivare ai big senza avere fatto uno studio di settore. Pagare cifre assurde per far sponsorizzare da Fedez una collana di fumetti non so quanto possa essere utile perché quello cui si rivolge il rapper, sebbeno molto ampio, è un target differente dal tipico lettore di anime.

In sostanza l’IM sembra essere la chiave di volta più per quel tipo di acquisto che si effettua sull’onda dell’entusiasmo e non sugli acquisti più ragionati e impegnativi. Difficile comprare un’automobile perché la guida Ronaldo, per quanto tutto quello che lo riguarda sembri così cool! Ma resta il fatto che in tutti i settori occorre esserci. Perché? Perché ci sono tutti. E se spesso il marketing che sfrutta video e social non significa un diretto incremento delle vendite, non farlo significa invece uno svantaggio competitivo importante rispetto ai concorrenti che si fanno riconoscere anche su Instagram, ad esempio.

Insomma, nulla si improvvisa e spendere tanto non vuole dire sempre spendere bene, anzi.

L’unica cosa certa che rimane è la presenza sempre più forte del video nel 2019 appena iniziato. Video non solo per pubblicizzare, video per intrattenere, video per educare, per insegnare, per divulgare. E il videomaking, dalla sua ideazione alla sua realizzazione e propagazione, non si improvvisa. Come abbiamo detto è sempre più un’arte rapida e semplificata dalla tecnologia, ma mai semplice. Per chi ancora non ci avesse pensato, occorre esserci e preparare il proprio ingresso in campo, per non rischiare di essere messi da parte, di non essere visualizzati o condivisi e passare quindi inosservati.

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Il vero re del Data Marketing è il porno!

Che il Porno sia un business da sempre, e probabilmente per sempre, non è una grossa novità. Ci stupisce però sapere che il grosso del merito va proprio alle grandi compagnie proprietarie delle piattaforme di streaming porno che, a quanto pare, sanno fare benissimo il loro lavoro. E non parliamo certo della mera qualità contenutistica che a volte lascia invece a desiderare. Quello che fanno molto bene è offrirci esattamente quello che vogliamo. E come fanno? Attraverso una capillare raccolta di dati organizzati e sfruttati al meglio. Data Marketing insomma.

 

A suggerirlo è un’inchiesta uscita su Quartz. Pare, infatti, che PornHub raccolga più dati di quanto non facciano i colossi dello streaming come Netflix e Amazon Prime Video. I motivi sono svariati e complessi. Innanzitutto il porno-consumatore è un consumatore tendenzialmente occasionale o comunque si ferma sulla piattaforma solo per pochi minuti. Per questo motivo il fatto che PornHub, You Porn e via dicendo offrano video gratis e senza bisogno di iscrizione è un vantaggio competitivo enorme che ha fatto guadagnare loro un bacino di utenza larghissimo e differenziato. Questo è possibile perché il porno oggi è low cost. Anzi, il pubblico finisce spesso per apprezzare di più la veridicità e il video amatoriale piuttosto che quello prodotto con attori mediocri e poco realista.

 

Beh ridendo e scherzando Pornhub insieme a YouPorn ed a Redtube, tutte di proprietà della holding MindGeek, raccoglie la bellezza di 125 milioni di visite giornaliere. Not bad! E MindGeek non si lascia sfuggire la ghiotta occasione di sfruttare per bene quel patrimonio di dati, ma lo fa unicamente in casa sua, niente compravendita o profitto sulla pelle dei porno consumer. E cosa ci guadagnano allora? Visite e iscrizioni premium. MindGeek infatti ha una logica molto attenta al consumatore, non necessariamente per vendergli qualcosa, ma per soddisfarlo, è proprio il caso di dirlo.

Il lavoro che svolgono è impressionante. I video sono infatti tutti associati a uno script molto dettagliato che indica esattamente cosa sta accadendo in quella determinata scena in quel determinato istante: chi è presente in video (uomo, donna, trans, animale, ecc.) come è vestito o svestito e addirittura qual è il set (casa d’epoca, loft moderno, ambientazione rurale), cose che potrebbero apparire superflue, ma che vanno a segmentare in maniera ultra precisa gli utenti, andando a scovare le loro perversioni e i loro gusti sia inconsci che dichiarati. Altro che l’algoritmo di Netflix, scontato e talvolta già obsoleto: hai guardato una serie con adolescenti, ti propongo altre 8 serie per adolescenti pressoché identiche. Banale. L’abilità sta nel riuscire ad allargare i gusti dell’utente, affinché la sua fame di video o di porno, non finisca mai.

C’è, però, un aspetto più delicato in tutta la faccenda ed è quanto il porno influenzi la società stessa o quantomeno la sua sfera sessuale. Se è vero che le piattaforme offrono ciò che ci piace, è anche vero che in parte decidono cosa farci piacere. Oggi più che mai (visti i numeri del porno) è importante che non ci sia un uso scellerato di questo strapotere da parte dei colossi dei video hard. Ma i ragazzi di MindGeek sembrano avere la testa sulle spalle, tanto che PornHub ha messo online un’intera sezione del suo sito dedicata all’educazione sessuale. Se è vero che tristemente la formazione in materia di sesso è demandata solamente alla rete, tanto vale che lo si faccia coscientemente e in maniera approfondita. Non solo, ma Pornhub ha raccolto di buon grado la sfida alla parità dei generi tanto in voga negli ultimi anni. Partendo proprio dall’hashtag #metoo non si è fatto sfuggire la ghiotta occasione di raccogliere una grandissima fetta di pubblico da sempre (almeno nell’immaginario comune) più ostica al porno: le donne. E da allora, sempre grazie a un attentissimo lavoro sui dati ha sviluppato sezioni ad hoc e ampliato molto la varietà di contenuti per soddisfare anche il più esigente occhio femminile.

Insomma i nostri complimenti a MindGeek e in generale a una buona fetta dell’industria del porno che pur offrendo molti dei suoi servizi gratuitamente riesce a rinnovarsi continuamente e ad avere come focus sempre la soddisfazione finale del cliente.

 

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Site Kit Google: il nuovo plugin WordPress che faciliterà la vita al web marketing

Per ora si tratta di una versione beta che sarà disponibile a inizio anno per coloro che si iscrivono.  Dopo un periodo sperimentale dove probabilmente Google raccoglierà i feedback dei clienti e sistemerà i bug fisiologici, il plugin sarà completamente free. Ne ha parlato per la prima volta Giorgio Tavernitiin uno dei suoi interventi su YouTube, ecco cosa abbiamo capito.

Di cosa si tratta?

Di uno strumento molto utile per le PMI e per tutti coloro che gestiscono un sito business. Infatti il plugin condenserà e renderà accessibili direttamente da WordPress i dati oggi suddivisi e raccolti in: Search Console,  Analytics, AdSense e Page e Speed Insight. Una mole di dati e informazioni decisamente impressionanti. Tra l’altro senza un grosso sforzo per Google essendo già strumenti esistenti che andranno a mescolarsi per creare una super dashboard fondamentale per chi si occupa di indicizzazione e marketing.

Si, in effetti questi strumenti già esistono, non è un vera e propria rivoluzione. Ma quanti possono dire di saper analizzare e utilizzare in maniera proficua i dati della search console ad esempio? Raggruppando diversi tool in un unico plugin Google fa una mossa molto astuta e che gli riesce sempre molto bene: si rende indispensabile senza inventare nulla di nuovo. Esattamente come ha fatto con Gmail e Chrome. Sai che bella idea, una casella di posta, sì ma come tutti sappiamo Gmail è LA casella di posta, così come ormai Chrome è IL browser per cui tutti i siti web si ottimizzano, nonché il browser predefinito da quasi tutti gli smartphone esistenti.

Insomma quando Google mette sul mercato un nuovo prodotto, è per dominarlo, non certo per fare la comparsa. In quest’ottica siamo sicuri che Site Kit farà parlare molto di sé, tanto che siamo qui a scriverne prima ancora che la versione beta sia disponibile. Legando tra loro i 4 strumenti Site Kit farà da cassa di risonanza ad ognuno di essi, alimentando ancor di più il dominio Google della Rete. Beh diciamo pure di tutta la Rete, esclusi i social network, visto e considerato il triste epilogo di Google Plus!

 

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Il biglietto da visita è il santino che non passa mai di moda

Di recente vi abbiamo parlato di calendari cartacei obsoleti. Oggi vi vogliamo dire due cose sui biglietti da visita. Ecco, qui la questione cambia radicalmente. Qui esce, in effetti, il feticista del santino che giace in molti di noi.

I biglietti da visita sono ancora fondamentali. Diciamo che sono fondamentali come le pagine FB delle attività B2B, a volte non servono a una mazza, ma se non le hai, è peggio! Una fregatura, insomma, perché hanno importanza solo quando mancano, ma non danno un gran beneficio quando ci sono. Allora l’unica soluzione è continuare imperterriti a farli, contro il tempo che avanza, i QR code, i Simper sul telefonino che ti danno il nome del chiamante anche se non lo hai nella tua rubrica e il mare magnum dell’internet che è in grado di rintracciare una persona che hai incontrato mettendo insieme tutte le tue tracce digitali.

Se bisogna assolutamente continuare a farli, bisogna farli belli, almeno. Studi clinici dimostrano che un bigliettino colorato previene la malattia dell’oblio e del cestino raccolta-carta. Scherzi a parte, davvero recenti studi sostengono (e mi pare anche abbastanza ovvio) che più i bigliettini sono “belli” e meno banali, meno finiscono nel cestino o nel dimenticatoio.

Quindi tanto vale sfruttare la magia della grafica. Una spruzzata di Illustrator, un pizzico di Indesign e anche il grigio bigliettino dell’idraulico può diventare il cartonato di Super Mario. Certo, in medio stat virtus e non è bene neanche strafare, sia perché spendere 500 euro per racimolare, forse, un cliente che ti compra una guarnizione non è una grande idea, sia perché l’eccentricità va bene se lavoriamo nel fantastico mondo della creatività, altrimenti meglio andare sul classico con un pizzico di colore in più, che male non fa.

Insomma non sto a spiegarvi tutti i trucchi del mestiere, contattateci e vi suggeriremo il biglietto da visita adatto a voi: quadrato, rettangolare, cubico, tridimensionale, caleidoscopico, ce n’è per tutti i gusti. Non vi illudete, il bigliettino da visita non muore mai, come i santini, ce lo porteremo appresso, in secula seculorum!