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Si fa presto a dire social media manager, ma Instagram è ancora tutto da scoprire!

Da quando Instagram ha stravolto il panorama social, tutti quelli nati prima degli anni ’00 si sentono dei matusa!

Si fa presto a dire social media manager. Ma prima che un professionista del settore, il social media manager deve essere uno/a sul pezzo.

Mi occupo da qualche anno ormai di social. Ma cosa vuol dire social media? Facebook? Twitter? In effetti li ho visti nascere, sono stata parte attiva, insieme a milioni di utenti, dell’evoluzione di queste piattaforme. Certamente gran parte del lavoro lo fanno gli sviluppatori e il team marketing probabilmente, decidendo questa o quella evoluzione. Ad esempio introducendo le Pagine, Facebook ha spalancato le porte all’adv, sia sponsorizzato che non.

Fin qui è storia nota, soprattutto per quelli della mia generazione, (anno di nascita 1989).
Ma ahimè, mentre io ero immersa nella consueta gestione di Facebook, Twitter, Linkedin, nasceva una nuova creatura, o meglio rinasceva. Instagram è in effetti un grande sconosciuto per noi over 25, almeno nella sua evoluzione più attuale.

Partiamo dal presupposto che in Italia le novità tecnologiche arrivano sempre leggermente in ritardo, un po’ come le voci dei nonni che ci chiamavano dai primi modelli di proto-cellulari. E quindi, Instragram per come l’ho visto nascere io era una cosa per pochi, scarna, semplice, bella, ma comunque prevedeva un uso saltuario e misurato. Era il social delle fotografi belle, o più spesso di foto qualsiasi con effetti random che rendevano luminescenti e favolosi anche le immagini del piatto di pasta condito con tonno in scatola. Il tutto rigorosamente accompagnato da improbabili hashtag come #instagood #instafood #instaepic e via dicendo (molti di questi sono tristemente ancora in voga). Ma da allora tutto il resto è cambiato. Dopo le intramontabili foto tema food sono poi arrivati gli ormai irrinunciabili selfie: correva l’anno 2010 quando l’uscita dell’iPhone 4, con la sua fotocamera anteriore, apriva la strada all’autoscatto. E oggi?

Come ogni anno anche quest’estate mi pongo un obiettivo, per tenere attivo il cervello anche sotto il sole di agosto. Quest’anno invece di prefissarmi interminabili letture ho sfidato me stessa a padroneggiare Instagram, in 15 giorni. E ho scoperto di avere delle voragini da colmare. Da utente sporadica, ho iniziato a passarci le ore, a sperimentare con il mio profilo privato, con risultati discreti, credevo… fino a che Rossella, un’amica classe 1995, un giorno me l’ha dovuto dire: sei vecchia. SILENZIO. Non sono certo frasi che si dicono a una quasi trentenne, ma l’ho lasciata parlare.

Le storie che fai sembrano quelle di mia madre se solo sapesse che esistono le Instagram stories

Infatti dovete tenere conto che ormai anche le stories hanno uno “storico”. E gli utenti hanno già deciso tendenze e regole non scritte. Un po’ come se qualcuno si iscrivesse oggi a Faceboook senza conoscerlo minimamente e spontaneamente risponderebbe alla domanda retorica “A cosa stai pensando”, proprio come facevamo noi teenager quando il social era ai suoi albori. Non ditemi che Facebook non delizia anche voi quasi ogni giorno con perle di saggezza dal passato: Sto pensando che fa caldo e vorrei tanto un gelato. Insomma, per imparare, abbiamo dovuto sbagliare. Ecco io a quanto pare faccio le storie come si facevano nella preistoria (oggi, infatti, le ere durano solo pochi mesi).

Non si usa più fare le scritte così grandi, così storte, è trash. Mi reguardisce la mia amica.
L’importanza va data al soggetto. Instagram, infatti, rimane sempre il social del bello.

I tag, quindi, vanno integrati nella foto, non sono un abbellimento, ma hanno una funzione tecnica, quella di inviare una notifica al soggetto taggato e quindi un link diretto della tua storia al suo profilo e la possibilità per il destinatario di ricondividere la stessa storia: un‘ulteriore possibilità di engagement quindi.

Ancora una volta a vincere (come in tutti i settori legati alla grafica negli ultimi dieci anni circa) è la semplicità, la pulizia. Pochi elementi, belli. Lo ha fatto proprio Instagram con un rebranding che prevede un logo molto stilizzato, molto minimal.

Per lo stesso motivo ora e luogo è meglio metterli in grigio asserisce Rossella. Le scritte tutte colorate, grandi, lasciamole agli adolescenti in cerca di identità.

Devi coinvolgere i tuoi follower. In effetti non parlare con i vostri follower, è un po’ come rimanere muti a lungo in ascensore con il tuo vicino di casa. Pubblichi una storia e vedi chiaramente le visualizzazioni aumentare e puoi leggere i nomi degli utenti che hanno visualizzato il tuo contenuto e loro sanno che tu sai. Insomma siete nella stessa stanza virtuale, ma fissate il muro senza nemmeno salutarvi. Come rimediare? Inserite sondaggi, buffi o reali che siano, all’interno delle vostre storie. O ancora meglio iniziate una diretta se avete qualcosa di interessante da dire e interagite direttamente con gli spettatori e i loro commenti. Le dirette sono una risorsa preziosa. Ogni volta che ne iniziate una, Instagram invia una notifica ai vostro follower, quindi usatele con intelligenza, fatele durare almeno il tempo necessario affinché tutti ricevano l’alert della diretta e cercate di curare un minimo l’immagine.

Soprattutto se fate marketing non potete permettervi di non avere le idee chiare, a partire dei vostri profili privati. Quella è la vostra palestra personale, date retta agli amici più giovani e abusatene con coscienza!

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Instagram: tutta un’altra storia

Nel mondo reale non ti approcceresti mai a uno sconosciuto esordendo con “Ehi, mi chiamo Tizio e vendo automobili, te ne serve una?”. O meglio: capita che qualcuno ti allunghi un volantino proprio mentre stai per perdere un treno o ti placchi nel mezzo di un centro commerciale, durante una sessione di shopping compulsivo, per illustrarti le ultime novità di quel prodotto che non avevi mai sentito nominare.

Capita, è vero. Ma nessuno oserebbe mai chiamarlo storytelling, malgrado sia una parola ormai sulla bocca di tutti.

Il volantinaggio è una chiara forma di advertising puro, anche piuttosto invadente, che infatti suscita reazioni disparate (o disperate, parlando in termini di marketing): un cenno di dissenso, l’indifferenza totale oppure un finto interesse che si traduce nell’accettare il volantino e gettarlo via quasi subito, senza averlo nemmeno letto né badato alla differenziata.

Sventolare le proprie qualità e i propri prodotti sul web non trasforma tutto questo in storytelling o, più precisamente, in branded storytelling. Cambia il mezzo ma non la modalità.

Ormai “Every company is a media company” è un concetto assodato. Grazie al web siamo tutti potenziali produttori di contenuti ma non necessariamente di “content”.

Se un’azienda parla di se stessa, raccontando magari la propria storia, non sta facendo branded storytelling ma di nuovo advertising.

Storytelling, infatti, non va tradotto letteralmente con “Raccontare storie” (che poi nel gergo italiano vuol dire pure “Raccontare balle”…), perché non si tratta di dire qualcosa ma di dare qualcosa a chi legge.

Nel 2015 e nel 2016 il Cannes Lions, uno dei premi più ambiti da chi si occupa di brand communication, non ha premiato nessuno dei candidati alla categoria Branded Content perché la maggior parte dei progetti in gara erano campagne promozionali, non prodotti editoriali che creavano valore per l’audience. C’era un solo protagonista in quelle “storie”: il prodotto. Erano tutti progetti che, anziché coinvolgerti per convincerti, puntavano a convincerti e basta.nessuno perché la maggior parte dei progetti in gara erano campagne promozionali, non prodotti editoriali che creavano valore per l’audience. C’era un solo protagonista in quelle “storie”: il prodotto. Erano tutti progetti che, anziché coinvolgerti per convincerti, puntavano a convincerti e basta.

Invece per coinvolgere il pubblico – e fare vero storytelling – un brand deve trasformarsi in una storia che si discosti da se stesso per diventare la storia di altri di cui condivide i valori.

Lo sanno bene i produttori di pneumatici più famosi al mondo, che devono gran parte della loro popolarità proprio a un prodotto editoriale: le guide gastronomiche firmate Michelin.

Pubblicazioni annuali destinate alle persone e create per le persone, dove il prodotto (le gomme) c’entrava solo indirettamente. Il punto era dare ai clienti qualcosa che potesse interessarli davvero. In poche parole: creazione e condivisione di valore (e di valori).

Poi, se la curiosità di provare i ristoranti consigliati nelle guide avesse spinto i lettori a prendere l’auto e partire (consumando i propri pneumatici o testandone magari l’inadeguatezza!), ancora meglio. Ed era probabile che, al momento di cambiare gomme, quelle persone si sarebbero rivolte proprio alla Michelin che, attraverso quel prodotto editoriale utile soprattutto a chi lo leggeva, era entrata in relazione con loro guadagnandosi anche la loro fiducia.

Se le Guide Michelin sono nate nel 1900, quando ancora la rete non ci sommergeva di presunti “contenuti”, l’idea alla base di quella strategia è più che mai attuale. E oggi non c’è storia: le Stories che fanno da padrone sono quelle pubblicate su Instagram. E non mi riferisco solo al video di tuo cugino che, mentre tu cuoci in ufficio senza aria condizionata, ti rende partecipe delle sue ferie. Parlo delle Stories dei Brand. Grandi Brand, che hanno capito di dover fare content anche sui social network, perché è lì che stanno le persone.

Forse stupisce che 1/3 delle Stories più viste provengano proprio dalle aziende (ha stupito un po’ anche me, e invece pare che le persone preferiscano quasi seguire la squadra del cuore piuttosto che l’amico). E forse stupisce ancora di più che 1 Story su 5 riceva almeno un Direct Messanger.

Allora l’Inter ci prova e se la cava abbastanza bene con le grafiche, i test e i video in cui sono proprio i calciatori a dirti quante risposte hai azzeccato.

Lo fa anche il Real Madrid e con contenuti creati ad hoc (non pensavate di caricare sulle Stories video già fatti per altri canali…) in cui gli atleti – facendo il gesto dello swipe app – diventano parte della comunità di quel media parlando la stessa lingua.

Un altro esempio? Foodbites, che nei post mostra creazioni artistiche fatte col cibo e nelle Stories come si arriva a farle, sfidando i follower a provarci.

Oggi Instagram offre ai brand la possibilità di entrare in relazione con il potenziale cliente (tantissimi potenziali clienti…) attraverso contenuti originali pensati ad hoc.

Se forse in termini di ritorno economico il branded content (web o social) si rivela efficace nel medio periodo, comunque una strategia multicanale – fatta bene – può far crescere concretamente il business di un’azienda.

Per questo noi che lavoriamo nel mondo della comunicazione stiamo sempre con le antenne sollevate (l’ultima novità di Instagram in fatto di Stories risale a pochissimo tempo fa…).

Ah lo sapevate che Facebook tiene così tanto alle Stories da aver creato un’area dove vengono inserite le campagne più interessanti della settimana? Guarda e copia? No. Guarda e lasciati ispirare.

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Social Strategia

Tempi duri per Facebook? Ma non diciamo stupidaggini…

Oggi è facile sparare su Facebook!

Qualche settimana fa mi auguravo che Zuckerberg intervenisse sulla sua piattaforma prima che il Governo Federale lo facesse a tutela della famosa “sicurezza nazionale”. L’analisi di Wired US era implacabile nell’evidenziare come Facebook, se usato al meglio delle potenzialità (community aggregator & news feeder), oggi sia lo strumento perfetto per piegare la realtà e mettere a repentaglio alcune basi della democrazia moderna come noi la conosciamo.

Beh, non abbiamo dovuto attendere molto per vedere una vera e propria gogna mediatica catapultarsi su Facebook in tutto il mondo.

Oggi, leggendo i vari newsfeed, ho letto l’intervento sull’AGI di Arcangelo Rociola in cui il giornalista cavalca l’onda mediatica sfruttando anche il tweet irriverente di Mr Whatsapp, Brian Acton, che dall’alto dei suoi 10 miliardi di dollari ricevuti da Facebook, oggi si può divertire a proclamare a tutto il mondo “It is time. #deletefacebook”.

Chissà se il nostro amico Brian avrebbe lanciato questo tweet nelle fasi calde della trattativa che lo hanno reso miliardario o forse sarebbe stato più cauto nel chiedere la cancellazione di Facebook, almeno fino all’arrivo dell’ultimo bonifico sul suo conto corrente?

Quello che veramente mi sorprende oggi, e che mi sorprende fino a un certo punto, è la capacità di tutti di soffiare l’onda mediatica. Fino a ieri tutti schiavi di Facebook, se non eri su Facebook eri uno “strano”, e oggi tutti a chiedersi “cosa si potrebbe fare senza la dipendenza da Facebook”. Techcrunch ci racconta addirittura che “Facebook ci sta usando. Sta di proposito prendendo le nostre informazioni. Sta creando delle echo chamber nel nome della connessione. Fa emergere le divisioni e distrugge le vere ragioni che ci hanno portati all’uso dei social media: (distrugge) le relazioni umane. È un cancro”. Ma davvero? Non ve ne eravate accorti prima?

Tutti oggi urlano indignati che non è giusto che Facebook abbia venduto i dati a Cambridge Analytica. Oggi tutti vorrebbero la punizione esemplare per “Marco Montedizucchero” che è stato cattivo e ha fatto i soldi rubando le informazioni che le persone ingenuamente avevano inserito nella scatola di Facebook.

Ma l’avete letta la pagina di log in di Facebook? Se fosse sfuggito a qualcuno, c’è scritto “Iscriviti. È gratis e lo sarà sempre”. Gratis. Qualcuno ha veramente pensato che tutto quel giochino fosse sul serio gratis? Che la possibilità di archiviare tutta la propria vita, video, foto, pensieri, commenti, emozioni, amore, odio, parole… fosse tutto gratis?

L’altro giorno mia figlia, guardando una serie tv in streaming, a un certo punto mi ha stupito: non capiva perché continuassero a comparire popup a infastidirla mentre guardava gratuitamente un programma televisivo su internet (fruibile a pagamento alla televisione?). Ma davvero tutti abbiamo pensato che il “gratis per sempre” volesse semplicemente dire che non ci fossero interessi economici dietro? Che Facebook fosse un’enorme realtà filantropica interessata al bene del mondo e che volesse regalare nuove opportunità a persone che si erano perse nel tempo? Pensavamo veramente che Instagram fosse un enorme album fotografico dove l’utente nutre il proprio ego inserendo immagini il cui interesse è spesso limitato a pochissime persone?

Mi spiace andare sempre controcorrente ma penso che tutto questo odio mostrato oggi dalla gente nei confronti di Facebook sia assolutamente insensato e illogico. Conosciamo tutti aziende che hanno chiuso la propria presenza digitale per spostarsi sui social, conosciamo tutti persone che parlano agli amici a tavola tramite Whatsapp e post su Facebook, conosciamo tutti persone che non sanno trovare neanche la strada di casa e utilizzano Maps per non perdersi mai… ah no, scusate, Maps non è di Facebook ma è sempre gratis.

Ma veramente qualcuno pensa che possa esistere una struttura come Facebook completamente gratuita?

Al contrario di come la pensa Rociola e l’AGI, “…il monopolio della vita digitale di 2,3 miliardi di utenti nel mondo comincia a preoccupare… se il costo di un servizio è gratuito, il costo di quel servizio sono i tuoi dati. La tua privacy. Le tue opinioni. E il tuo voto, come nel caso delle campagne elettorali di Cambridge Analytica”, io credo che quello di cui dovremmo preoccuparci sia un’altra cosa: se Facebook chiudesse domani e dopodomani chiudesse Google, tutti torneremmo in una preistoria di comunicazione imbarazzante.

Senza Facebook le aziende non saprebbero come parlare con i propri clienti, senza Facebook le persone non saprebbero cosa succede attorno a loro, senza Facebook le persone non riuscirebbero a sapere quello che succede nel mondo, senza Facebook i giornali non saprebbero come rintracciare lettori. Se domani Mark Zuckerberg decidesse che ha fallito la sua missione e spegnesse i suoi server, saremmo tutti più liberi ma anche più poveri.

Senza Facebook dove andremmo a mettere le foto, i video, i  ricordi, i pensieri, le opinioni e le notizie? Come immaginate il vostro domani senza Instagram, Facebook e Whatsapp?

Brian Acton, con i suoi 10 miliardi dollari, può tranquillamente decidere di #cancellarefacebook. Tutti noi, invece?

P.S. ah, un’ultima cosa. Non è che Facebook mi stia simpatico o altro. Abbiamo provato a fare una campagna sul precedente articolo e Facebook ha respinto la campagna come “inappropriata”. Non sono simpatici, non sanno fare autocritica, ma per favore cerchiamo di ragionare!

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Social Web

Google sorpassa Facebook, con il tifo della stampa

Qualche giorno fa, in uno dei tanti gruppi di discussione mi sono trovato di fronte a un commento in merito alla “stampa”, da parte di un imprenditore abbastanza importante, che mi ha lasciato sorpreso: “Quello lì è un giornalista: trattatelo bene perché ha in mano l’informazione e l’informazione, si sa, è potere”.

Nelle scorse settimane abbiamo anche parlato di come Facebook stia passando un periodo complesso, tra l’accusa di essere il principale diffusore di fake news nel mondo e alcune nuove ricostruzioni sui motivi del cambio di algoritmo effettuato da Zuckerberg negli ultimi mesi. Inutile dire che le ricostruzioni provengono dal mondo della stampa ed è ormai abbastanza risaputo che tra Facebook e la stampa non corra assolutamente buon sangue.

La stampa, infatti, accusa da mesi la piattaforma social più conosciuta al mondo di essere propagatore di una “verità” differente da quella che da sempre i media classici hanno raccontato al proprio pubblico. L’avvento del social, e quindi l’aver dato a tutti gli utenti il potere di dire la loro con lo stesso grado di “voice”, ha probabilmente creato la bolla di speculazione comunicativa che ci ha raccontato Wired nel suo articolo.

Tutto vero? Probabilmente sì, ma d’altra parte – come abbiamo già detto – Facebook, se usato al massimo delle sue potenzialità di community aggregator & news feeder, ha le carte in regola per diventare un vero e proprio crack in grado di creare e distribuire uno stream di comunicazione differente da quello “ufficiale”.

Ma la terza legge della dinamica ci insegna che a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. La decisione che il nuovo goal è “time we all spend on Facebook is time well spent” non è passata del tutto inosservata, e pare non solo nei confronti del mondo dell’informazione.

A quanto pare, anche per Facebook “piove sul bagnato” e dalle ultime statistiche sembra che negli ultimi mesi ci sia stato un sorpasso che ha dell’incredibile.

Google ha infatti rimpiazzato Facebook come top referrer per i publisher.

L’infografica apparsa qualche giorno fa su Statista.com ci mostra come a partire dal 3° trimestre 2017 Google abbia sopravanzato Facebook sia a livello di desktop (e questo lo sapevamo già tutti) sia a livello di mobile, come fonte principale per portare traffico all’interno delle piattaforme di informazione mondiale!

Incredibile.

Facebook Mobile sta velocemente precipitando verso una paradossale disfatta (-32%) nei confronti di Google proprio in una delle aree su cui Zuckerberg aveva maggiormente puntato come driver di affermazione di FB come piattaforma di comunicazione globale: l’informazione.

Sicuramente Facebook non si è fatto molti amici nel mondo dell’informazione globale negli ultimi anni ma pochi potevano prospettare una disfatta di tali dimensioni anche soltanto sei mesi fa (periodo in cui secondo l’infografica di Statista, il sorpasso era già avvenuto). Una disfatta la cui provenienza non deriva dal mondo dell’informazione ma è sancita dagli utenti stessi.

Le statistiche sono come i bikini. Ciò che rivelano è suggestivo, ma ciò che nascondono è più importante, diceva Irving R. Levine, ma in questo caso i numeri ci dicono che dopo essere stata messo al bando dal mondo dell’informazione, anche gli utenti hanno deciso che Facebook non sia più la fonte maggiormente rilevante per trovare nuove notizie all’interno del panorama digitale. Google invece oggi ha oltre il doppio dei click da parte degli utenti verso le principali piattaforme di informazione globale. A quanto pare il “time well spent” non prevede da parte degli utenti la fruizione di contenuti informativi!

Un tradimento da parte dei publisher ci stava ma quello da parte degli utenti, credo che Zuckerberg proprio non se l’aspettasse.

I tecnici oggi parlano delle importanti migliorie che gli Accelerated Mobile Pages di Google possono avere avuto in questa bruciante sconfitta da parte di Facebook ma sinceramente credo che tutti leggendo queste parole possano solamente sentire il rumore di unghie sul vetro!

Facebook ha perso il suo forward momentum non solo nei confronti del mondo dei diversi establishment, ma anche e soprattutto nei confronti dei suoi utenti. Quei miliardi di utenti che ne hanno deciso fino ad oggi la crescita e la sua incredibile fortuna, iniziano a guardarsi attorno alla ricerca di nuove fonti di “ispirazione” e “informazione”.

Come già successo per Apple, anche Facebook è stata risucchiata dal gruppo degli inseguitori? L’azienda che doveva cambiare il mondo del web, è stata cambiata dal web?

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Social Strategia

Sponsorizzate? Pagare i click non ha mai funzionato

Dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che piazzare un budget, anche alto, sulle sponsorizzate non basta più, forse non è mai bastato e comunque non dà i frutti sperati.

Perché?

Perché il social network, lo abbiamo detto in precedenza, è il luogo della condivisione in senso romantico. Il luogo per eccellenza del marketing emozionale, e di emozionale la sponsorizzata non ha proprio nulla. Soprattutto perché si vede.

Partiamo da una diffidenza di base dell’utente di fronte agli Adwords & co. Talvolta addirittura per principio, l’utente scansa il contenuto pubblicizzato in favore di quello organico, recepito come genuino.

Come se ci fosse del marcio nel pagare la visibilità, almeno in un mondo in cui possono averla tutti, puntando sulla qualità dei contenuti. Certo, nessuno dice che sia semplice. Messa così sembra addirittura meglio, pagare non serve… quindi la visibilità è gratis? Magari!

Innanzitutto è anche sbagliato sostenere che sponsorizzare le proprie pagine aziendali sia del tutto inutile. Va fatto nel modo e nei tempi giusti.

Inutile puntare solo sulle sponsorizzate per un business nascente e quindi sconosciuto.

Una visualizzazione di per sé non ha un grosso valore. O meglio: nel caso di un brand sconosciuto, ha un costo maggiore del beneficio che porta. Probabilmente non porterà ad alcuna interazione e sarà quindi infruttuoso poiché non aumenterà la credibilità recepita dell’azienda. Come giudicate quei desolanti post con 0 commenti e 0 reazioni che sono solo una becera esecuzione di un calendario editoriale sistematico e mal gestito? Tutti li giudichiamo per quello che sono: tristi.

Quindi dove è meglio spendere i soldi prima che per le sponsorizzate?

Bisogna partire da metodi, per così dire, tradizionali. Creare una base solida di reputation sul campo: investire sul content e avere clienti così soddisfatti da farci da ambassador.

Non ve la siete scampata dunque, i soldi vanno investiti e non le poche centinaia di euro delle sponsorizzate, ma ben di più. Soldi e tempo, perché i risultati non piovono dal cielo così come i click.

La SEO content creation costa cara, se fatta bene. Bisogna affidarsi a persone competenti e affezionate al progetto. Se fatta in modo approssimativo e mediocre, tanto vale non farla, perché ritorneremmo al desolante quadro 0 condivisioni 0 reazioni.

Il passaparola, croce e delizia di ogni azienda, nemmeno quello è gratuito. Bisogna prendersi particolare cura dei primi clienti (senza trattar male quelli a venire, per carità), ma consapevoli del fatto che quel di più che si “regala” ai primi lavori (in termini di follow-up e customer-care) sia anche un investimento pubblicitario, e non un’inutile spesa.

Solo creati i presupposti vale la pena mettere in budget la voce per sponsorizzate & Adwords, e ancora la strada sarà lunga per convertire i click ottenuti.
Dapprima sarà il caso di mettere nel target gli attuali clienti e simpatizzanti. Inutile? Direi di no, solo così i simpatici algoritmi che regolano la rete capiranno che siete affidabili, stimati e condivisi, abbassando il costo delle visualizzazioni che vorrete ottenere. Solo allora avrà senso allargare il target, poco alla volta e in maniera molto accurata, per evitare di fare passi indietro.

Non ci si improvvisa social media manager, eppure nessuno saprà davvero insegnarvelo. Perché i social media cambiano ogni giorno e hanno una storia troppo breve per essere chiamata tale. Ascoltate i consigli che vi sembrano più sensati e sperimentate, passateci le ore sulle piattaforme che volete sfruttare. Come pensate di poter giocare a calcio leggendo un manuale e senza aver mai toccato un pallone? Iniziate a palleggiare al parchetto e poi fate il vostro esordio sul campo vero. Giocando e sbagliando, si impara.

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Social Tendenze

Una “social promozione” incredibile

Ormai luglio sta finendo e sui social network si sprecano i consigli su cosa scrivere ad agosto, cosa leggere durante le ferie, cosa fare durante le agognate vacanze. Mi stavo preparando a scrivere l’ennesimo post di questo tipo quando ieri mi sono imbattuto nella social promozione perfetta.
Per anni ho seguito corsi su corsi in merito alla SEO, alla lead generation sui social, agli algoritmi più folli e astrusi che i motori di ricerca prima e i social poi creano e modificano periodicamente per rendere sempre più complicata la vita ai marketer che provano a sfruttare al meglio il mondo social: il posto dove la gente c’è!

Ma ieri pomeriggio mi sono scontrato contro la vera e propria “campagna” social fai da te dal successo assolutamente assicurato!

Domenica, giornata afosa e noiosa. Decidiamo di andare a pranzo in un locale vicino a casa nostra dove si cucina di tutto. Cinese, Giapponese, Italiano, Brasiliano, Mongolo, Griglieria on demand, gelati, dolci… Locale pieno zeppo (nonostante la periferia milanese sia deserta), con tutte le tipologie di clientela possibili e immaginabili. Giovani, anziani, italiani, stranieri, bambini, ragazzi. Tutti ovviamente in lotta per la sagra dell’abbuffata in questo all you can eat di medio livello (va beh, non si può pretendere pure la super qualità) ma oggettivamente piacevole, nonostante il frastuono imperante.
Prezzo per tutto questo incredibile marasma culinario? Euro 14,80 bevande escluse. Beh dai ci può stare in quel di Milano un prezzo del genere. Ricerca spasmodica per un posto macchina (in quel di Bresso dove oggettivamente a volte è difficile trovare una persona camminare per ore!), ricerca ancora più spasmodica per un tavolo e via, si possono aprire le danze.
Tralasciando la parte commestibile, non sono un fan del cibo quindi non sarei credibile, arrivo dritto dritto alla fine del pranzo.
Ci mettiamo in coda alla cassa e vediamo tutti con il telefono in mano che fanno concorrenza a Pokemon Go sbattendo freneticamente i tasti sugli smartphone per poi mostrarlo alla gentilissima signorina in cassa (guarda caso cinese!).

“Scusi signora, posso chiederle cosa sta facendo?”.
“Ti fanno lo sconto del 10% se condividi la loro immagine promo su Facebook!”.

Scusa? Sì, si abbiamo capito bene. I signori applicano lo sconto – sullo scontrino arriverà la dicitura “Sconto Condivisione Social” – del 10% sul prezzo del menù fisso a chiunque mostri il telefonino con il loro post condiviso sulla propria bacheca.

Alla modica cifra di 1,48 euro a persona quel ristornate ha raggiunto tutti i follower di tutte le persone che ieri hanno mangiato lì. Meno di un euro e mezzo e tutti i miei amici hanno ricevuto la notifica che io ho mangiato in quel locale.

Facciamo un po’ di calcoli.
Ieri a pranzo a parer mio sono passate almeno 400/500 persone per quel ristorante.
Il costo dello sconto potrebbe essere quindi tra i 600 e i 750 euro (ovviamente non tutti hanno usufruito dello sconto visto che non tutti hanno Facebook!).
Facciamo conto che ogni utente abbia tra le 150 e le 300 connessioni. Non stiamo parlando di amici, ma di connessioni, potremmo parlare del famoso numero di Dunbar relativo alla struttura delle relazioni sociali, ma adesso stiamo parlando di reach vera e propria. Persone fisiche che sono in contatto con te sul tuo social preferito e che vedono come notifica le azioni che tu realizzi su quel social.

Quindi Excel alla mano: investimento tra i 600 e i 750 euro di sconto. Reach potenziale tra le 60mila e le 150mila persone.

Prendiamo Facebook Ads e proviamo a fare una simulazione con le stesse cifre creando una campagna per quella stessa pagina, andando a inserire qualche parametro relativo alla ricerca. Con un investimento tra i 600 e i 750 euro la copertura giornaliera stimata da Facebook è tra le 60mila e le 190mila persone.

Cifre relativamente simili. Dove sta la differenza? In questo caso stiamo parlando di Pubblicità. Stiamo parlando di un’azienda che promuove il proprio prodotto. Un’azienda che paga una cifra per parlare di sé. Inserisce i suoi contenuti all’interno di tutti i contenuti per promuovere il proprio prodotto.

Nel caso reale invece di cosa parlavamo? Di 400/500 persone che parlano in prima persona della loro esperienza presso quel ristorante e fondamentalmente invitano tutti i propri amici (con una notifica!) a provare anche loro quell’esperienza.

Voi pensate che il 10% di sconto sia un numero casuale? Secondo me assolutamente no. I proprietari hanno fatto i loro bei calcoletti su Facebook e hanno visto quale fosse il costo per raggiungere quel tipo di pubblico e definito il loro “mancato guadagno” come costo promozionale diretto del proprio ristorante.

Da campagna pubblicitaria su Facebook a Facebook come vettore pubblicitario indiretto: è proprio vero che i social, al di là di tutti gli algoritmi, sono ciò che gli utenti decidono di renderli.

Questi signori hanno reso Facebook la loro meravigliosa indiretta cassa di risonanza, senza dare un euro diretto a Facebook e rendendo felici i clienti che hanno pranzato da loro.

Siamo sicuri che lo sconto del 10% sia stato solo casuale o hanno calcolato il costo di Facebook Ads e lo hanno convertito in sconto alla clientela?

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Social Tendenze

Zuckerberg preso a schiaffi dai suoi ex dipendenti: Facebook gli è sfuggito di mano?

Il 12 febbraio è uscita su Wired USA un’inchiesta che mette sotto accusa il colosso Facebook e in particolare la gestione degli ultimi due anni da parte del suo creatore, Zuckerberg. Oltre 60.000 battute che picchiano duro sul volto dell’inventore del social network più diffuso al mondo, tanto che la copertina del magazine rappresenta proprio Zuckerberg con il volto tumefatto.

L’articolo raccoglie una serie di interviste rilasciate da dipendenti ed ex-dipendenti della compagnia. Secondo alcuni di loro, Facebook avrebbe “toppato” negli ultimi due anni, peccando di ingenuità, nel migliore dei casi, e di faziosità nel peggiore.

Innanzitutto va ricordato che Facebook nasce nientepopodimeno che ad Harward per mettere in contatto gli studenti tra loro. Studiato quindi per uno user di altissimo profilo culturale, non poteva prevedere una diffusione tale e una così variegata amalgama di utenti. Veniva creato con lo slogan “Facebook aiuta a connetterti e rimanere in contatto con le persone della tua vita”. Queste le premesse.
I primi di noi che si sono iscritti qui in Italia, ormai una decina di anni fa, probabilmente ricordano la diversa natura del mezzo. Si accedeva al sito per scrivere “ciao” sulla bacheca di un amico in Erasmus e poco più. Man mano che gli iscritti crescevano, e con loro le potenzialità del mezzo, sicuramente le cose cambiavano. Tanto che ora ci facciamo delle grasse risate a rileggere ciò che ci ripropone l’apprezzatissima funzione “accadde oggi”.

Oggi Facebook è molto meno “buffo” e personale (non meno ridicolo a volte) ma è diventato una faccenda seria. Così seria da essere difficilmente gestibile per il giovane ex studente di Harward che fatica a comprenderne non tanto le potenzialità, quanto le ombre.
C’è chi lo vede come tutt’altro che ingenuo, il ragazzo. A me pare che la sua idea originaria fosse invece molto romantica e che con l’andare degli anni abbia perso il controllo della macchina, forse anche giustamente distratto da una vita privata che lo ha assorbito, in parte, dalla maniacale richiesta di attenzione che richiede uno strumento del genere.

I primi problemi sono iniziati quando Twitter ha preso a dare fastidio e Facebook, per sovrastarlo, ha lasciato più spazio alle news. Ma Facebook non è Twitter. Privato e pubblico, oggettivo e soggettivo si mischiano vorticosamente, facendo venire nausea e confusione a chiunque. Zuckerberg allora costituisce una squadra per gestire i trending topic, perché non siano governati solo da un algoritmo ma “guidati” da giornalisti veri. Risultato: viene accusato di favorire le notizie pro-democratici e, da buon idealista qual è, questa cosa lo fa incazzare.

In effetti il ragazzo è uno che tiene alla parità dei diritti uomo/donna, che promuove la pace e combatte le differenze. Uno così non avrebbe certo votato Donald Trump.
Eppure pare proprio che sia vero il contrario, che Facebook abbia giocato un ruolo chiave (e inconsapevole) nell’ascesa del tycoon al potere, grazie alle numerose fake news che hanno invaso Facebook durante la campagna elettorale americana, sfavorendo la concorrente Hillary Clinton.
Immaginatevi come potesse reagire un ragazzo poco più che trentenne, accusato di aver cambiato le sorti del Paese e forse del mondo. Ha certamente avuto paura.
Così paura che voleva lavarsene le mani. “Se gli editori vogliono andarsene da Facebook, che se ne vadano”, ha più volte dichiarato. Ma poi ha inserito sulla piattaforma USA il primo strumento di fact-checking. Insomma non sapeva più che pesci pigliare.

Nel 2018 la grande rivoluzione: il cambio di algoritmo… un ritorno al passato, lo ha chiamato. Siamo tornati al romanticismo harwardiano del Zuckerberg ventenne. Io ci credo che voglia tornare ai bacini in bacheca mandati ai cugini in argentina. “Vogliamo assicurarci che i nostri prodotti non siano solo divertenti, ma buoni per la gente”. Più qualità, più amore cosmico e magari meno condanne morali e responsabilità. Nonostante la diffidenza dei mercati, nonostante il rischio di perdita di investitori. Mark va avanti come un treno, come sempre. Speriamo un briciolo più consapevolmente, questa volta, del potere della macchina che pilota.

Se poi per una volta preferisce la qualità alla quantità, non possiamo biasimarlo, è quello che cerchiamo di fare anche noi. Nel lavoro, come nei social.

PS: spero che Mark intervenga sulla sua piattaforma prima che il Governo Federale lo faccia a tutela della famosa “sicurezza nazionale”. L’analisi di Wired US è implacabile nell’evidenziare come Facebook, se usato al meglio delle potenzialità (community aggregator & news feeder), oggi sia lo strumento perfetto per piegare la realtà e mettere a repentaglio alcune basi della democrazia moderna come noi la conosciamo. L’alert da parte dei Servizi Segreti italiani sulle prossime elezioni non sono quindi solo una boutade. Se sai usare bene Facebook, riesci a farti eleggere o a non far eleggere il tuo avversario?

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Zuckerberg cambia algoritmo e le aziende tremano

Facebook privilegerà gli amici alle pagine e sarà la rivincita del marketing emozionale.

Lo ha annunciato proprio Mark Zuckerberg sul suo profilo FB: l’algoritmo del social network più famoso e diffuso al mondo sta per cambiare.

Come?
I social media manager di tutto il mondo già tremano. Pare infatti che il fondatore di Facebook auspichi un “ritorno al passato”, un passato recente, si intende. Quello in cui si usava il social solo per l’interazione tra utenti e non per la condivisione di contenuti pubblicitari o di informazione.

Quando Facebook è sbarcato in Italia, cioè circa una quindicina di anni fa, le persone non conoscevano ancora le potenzialità dello strumento. Lo si utilizzava per mantenere i contatti con amici conosciuti in vacanza o parenti lontani, per sentirli vicini. Ora la sua natura è molto diversa, così come la sua potenza, la sua capacità di veicolare informazioni, giuste o scorrette che siano, e di raccogliere informazioni sugli utenti.

Una nobile intenzione?
Sembra che il papà di Facebook voglia restituire alla sua creatura quelle nobili intenzioni che negli anni ha smarrito, almeno in parte.

Quindi il nuovo algoritmo favorirà i post degli amici piuttosto che delle pagine. Meno news e contenuti di marketing a favore di foto private, contenuti intimi e personali.

Ma attenzione. Ci sarà ancora spazio per le pagine, purché godano di una buona interazione con il pubblico. Uno degli obiettivi del rinnovamento, infatti, è ottenere un social network sempre più attivo e frenare la fruizione passiva dei contenuti delle pagine, sponsorizzati o meno.

Chi sopravviverà quindi a questa ecatombe?
Difficile dirlo. Sicuramente chi ha puntato sul consolidamento del rapporto con gli utenti e di una connessione empatica è un passo avanti agli altri. Al contrario, chi si è limitato a sponsorizzare post spiccatamente commerciali o a usare la propria pagina come si usa la vetrina di un negozio, avrà molte difficoltà a cambiare rotta velocemente. Coloro che sembrano trarre vantaggio da questo cambio di rotta sono le personalità che sfruttano la propria riconoscibilità per fare business. Penso a tutti quei lavoratori che vendono se stessi come liberi professionisti e hanno un buon seguito sui social network, sfruttando proprio il profilo personale. I cosiddetti influencer che hanno centinaia di like e condivisioni saranno privilegiati dal nuovo algoritmo, poiché non immediatamente bollati come “brand”.

In realtà la logica premiante per le interazione varrà anche per le stesse pagine aziendali. Per questo sarà il momento di raccogliere ciò che si è seminato con il marketing emozionale e la filosofia “Ceres”, per intenderci.

Si tratterà di un’epica rivincita su chi bollava come inutili le campagne social non finalizzate direttamente alla vendita, ma piuttosto alla creazione di una community, di un legame con l’utente e possibile cliente. Una logica che adesso probabilmente darà i suoi frutti.

Questa innovazione, quindi, potrebbe rendere quasi tutti contenti:

  • gli utenti, che vedranno sul proprio newsfeed solo post a cui sono davvero interessati o che reputano coinvolgenti in qualche modo;
  • le aziende e le agenzie di comunicazione, che da tempo hanno capito che Facebook non è un canale di vendita diretto ma un luogo dove acquisire la credibilità e la simpatia di chi è o potrebbe diventare cliente, scegliendo te su un competitor al momento dell’acquisto.

Unici scontenti? I fanatici del marketing duro e crudo, generico e senza stile o profilazione. Chi non ha ancora capito che mostrare la merce non basta più: questa è l’epoca dello storytelling aziendale.

Voi lo avevate già capito?

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Come utilizzare i social per trovare Lead

Si definiscono “lead” i potenziali clienti che mostrano un certo interesse nei confronti del brand, dei prodotti o dei servizi di un’azienda.

Si tratta di contatti che, ad esempio, si sono iscritti alla newsletter, hanno scaricato un contenuto o hanno contattato telefonicamente o per email l’azienda in questione.

Uno dei principali vantaggi di utilizzare i social media per generare lead è la possibilità di concentrarsi su profili altamente qualificati, grazie al targeting avanzato: i social media permettono, infatti, di entrare in contatto con un pubblico molto vasto e con una miriade di informazioni volontariamente condivise.

Allo stesso tempo, uno degli errori più facili da commettere è cercare i contatti sul social network sbagliato: una lead generation ideale necessita, prima di tutto, di conoscere il proprio target, le sue abitudini e le sue esigenze.

Vista la maggioranza di utenti è facile pensare che Facebook possa essere la scelta migliore, ma non è sempre vero: circa la metà delle aziende che operano in ambito B2B, infatti, genera nuovi lead attraverso Linkedin, meno del 40% usa Facebook e appena il 30% Twitter.

Un altro aspetto fondamentale è il tipo di lead che si vuole ottenere, perché è in funzione di questa scelta che si studia la strategia, che solitamente prevede due fasi: creazione di contenuti in grado di intrattenere e interessare gli utenti e condivisione degli stessi su altre piattaforme (altri social network, blog, siti web).

Quando si parla di Lead è importante comprendere che non si tratta di un guadagno facile né tanto meno immediato. Il percorso che porta i Lead a essere Clienti richiede un investimento di tempo definito “nurturing”, cioè nutrimento. I Lead sono le sementi che piantiamo in quantità; sappiamo che dobbiamo prenderci cura di ogni seme, innaffiandolo regolarmente e concimando il terreno con la consapevolezza che solo alcuni daranno vita a una pianta.

Ma come si nutrono i lead?

Con contenuti validi e interessanti.

Può sembrare una perdita di tempo o un investimento sproporzionato ma, studiando bene il target di riferimento, la Lead generation può creare un bacino di utenti/clienti più che solido, che contribuirà direttamente al benessere aziendale o aiuterà ad ampliare ulteriormente reputation e contatti attraverso il passaparola digitale.

Feed your lead!

Per concludere, vi lascio con una domanda che mi sono posto spesso, di recente: “Di che colore è il vostro Brand?”

Un colore è identificativo e la risposta a questa domanda non è mai definitiva al 100%. Provate a rifletterci, individuate l’essenza del vostro brand, datele un colore. Sceglietelo d’impulso e accostatelo alla vostra filosofia, al vostro metodo, al vostro rapporto con il brand.

Vi verrà spontaneo, a un certo punto, chiedere di più.

Il colore scelto d’istinto non è definito, ha in sé milioni di sfumature. Ed è solo con uno studio approfondito che si scova la gradazione capace di rispecchiare al 100% la vostra Brand Essence.

Se il vostro istinto vi porta verso un giallo, per intenderci, in un secondo momento vi verrà da chiedervi se quel giallo sia giallo ambra, crema o giallo limone. È questo il percorso che vi invitiamo a fare, con noi al vostro fianco. Saremo in grado di guidarvi, mostrarvi ogni possibile gradazione, lasciando comunque che siate voi a trovare la vostra.

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Essere o non essere? No, il problema è l’essence

Il brand è ciò che il cliente percepisce, un insieme di sensazioni e di emozioni che rappresentano la reputazione dell’impresa. Per definizione, prende posizione su uno specifico modo di essere e di pensare, acquista caratteristiche quasi umane – e infatti parliamo di anima, essenza – e, come gli umani, ha la possibilità di evolvere nel tempo.

Il brand necessita di un nome giusto, un nome che coinvolga il pubblico, facile da pronunciare e che tenga fede al mercato di riferimento, e di un logo che non sia banalmente descrittivo ma abbia in sé una capacità evocativa non indifferente.

Per ottenere il massimo dell’efficacia, la brand essence dev’essere:

  • Unica: deve evidenziare ciò che rende il prodotto offerto dall’azienda diverso dai competitor
  • Intangibile: il brand deve suscitare emozioni, qualcosa che non possa essere toccato con mano ma in grado di colpire
  • Ben definita: una o massimo due/tre parole devono bastare per esprimere il core dell’azienda, un messaggio semplice e facile da ricordare che si imprima nella memoria
  • Esperienziale: cattura le emozioni che il cliente prova con l’esperienza del prodotto, e le riporta
  • Significativa: deve avere importanza per il target di riferimento dell’azienda
  • Ripetitiva: la brand essence deve realizzarsi ogni volta che il cliente interagisce con il brand
  • Durevole: non deve mai cambiare nel tempo ma rispettare il patto fatto con i propri clienti
  • Autentica: deve rappresentare onestamente il brand per essere accettato dai consumatori
  • Adattabile: dev’essere in grado di resistere nonostante la possibile crescita del business.

Individuare l’essenza del proprio brand è indispensabile per qualunque impresa e rappresenta il primo passo verso il mondo del marketing: la brand essence rappresenta, infatti, il più grande punto di forza di un’impresa, ciò attorno al quale ruoterà il suo mercato.

Solo dopo aver definito la propria brand essence si può parlare di strategia di marketing o di piano d’azione, di target e di commercio vero e proprio.

Un esempio di come una brand essence ben definita sia un assoluto vantaggio, è certamente quello di Ceres. Ha da qualche anno messo in atto una strategia di real time marketing possibile solo grazie a un’essenza inossidabile e delineata. Ceres è decisa, ironica e dissacrante e così lo è la sua comunicazione.

Solo un brand che conosce alla perfezione il suo target può permettersi di essere irriverente come Ceres senza rischiare di perdere consenso.

Se il brand fosse un albero, la sua essenza sarebbe la linfa, l’attributo più importante che lo distingue dalla concorrenza, la costante tra tutte le categorie di prodotto del brand.

A proposito, da qualche settimana ci gira in testa una domanda:

“Di che colore è la vostra azienda?”.

Rifletteteci e datevi una risposta prima di pancia e poi di testa. Se la risposta non è significativa, sentiamoci, potrebbe essere interessante scoprire come mai il “giallo della pancia” non corrisponde al “blu della testa”.