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Linkedin resiste ma fun is bigger than job!

Linkedin resiste, cresce e si concretizza, eppure fun is bigger than job!

Linkedin lo scorso anno ha compiuto ben 15 anni, eppure se la cava bene, almeno stando ai numeri: conta oggi oltre 500 milioni di iscritti nel mondo. Niente male per un social network che non ha la pretesa di intrattenere in senso stretto, quanto di creare relazioni lavorative fruttuose e in generale allargare la propria rete di contatti business.


Nonostante tutto l’intrattenimento sembra valere di più,

Tutti sappiamo che se non siete iscritti a Facebook non avrete la possibilità di accedere ad alcun contenuto all’interno di esso. L’obiettivo del social più famoso del mondo è, infatti, farti iscrivere ad ogni costo. E una volta che ci sei dentro, ti si apre un mondo, non solo quello che vedi attraverso la tua bacheca e che in fin dei conti è poco più di un riflesso artificiale dei tuoi interessi e delle persone che frequenti, ma anche tutti quei luoghi che si schiudono grazie al login semplificato che puoi utilizzare in una miriade di luoghi nel web, utilizzando le credenziali di Facebook.

Per Linkedin il discorso dovrebbe essere lo stesso. Se Facebook è l’arena del divertimento e della sfera privata, Linkedin dovrebbe essere il social business per eccellenza ma… ma ormai da parecchie settimane Linkedin permette il social login attraverso Facebook. Cioè? Ti permette quindi di creare un account per accedere al mondo Linkedin passando attraverso il tuo profilo di Facebook. Può sembrare un banale scambio di favori tra lo stesso tipo di cliente che opera in due sfere differenti ma questo non è il caso. Facebook non ti permette di accedere al suo mondo di divertimento attraverso il login di Linkedin.

 

Particolare non banale, se ti iscrivi a Linkedin passato dal re dei social per intrattenimento, puoi piombare nel bel mezzo del salotto dedicato agli affari, con un profilo che porta con sé molte informazioni personali, fotografie con amici, attimi di relax, vacanze, fotografie di gattini, piedi al mare, viaggi, apericene, piatti da mangiare piuttosto che informazioni utili a delineare la tua professionalità.

Alla fine nonostante tutto, nonostante tutte le news sullo stato di grave salute del più grande social del mondo, oggi Facebook non è assolutamente pronto a lasciare il proprio scettro di monopolista assoluto nel mondo dei social. Non c’è scampo, non vi salverà essere iscritti a Linkedin, al sito delle agenzie delle entrate o all’anagrafe. Quello che vuole Facebook da te è l’esclusività del tuo profilo, sfoggiando un atteggiamento spavaldo e sicuro di sé, convinto com’è che prima o poi tutti si sentiranno sbagliati nel non esserci e nel non poter visitare la pagina della pizzeria in cui vogliono mangiare e che non ha un dannato sito internet. Prima o poi tutti ci cascheranno, pensano e forse hanno tristemente ragione loro.

Mentre Linkedin, nonostante si parli di cose più serie come lavoro e affari, questo “ricatto” non può ancora, e forse non potrà mai, permetterselo. Perché fun is bigger than job. (ed è pure più furbo). Non c’è modo migliore che attrarre business con un like, stuzzicando la curiosità, in modo leggero.

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La PA e l’app IO

La Pubblica Amministrazione prova a sbarcare su Mobile con l’app IO

Team per la trasformazione digitale. Che nome altisonante hanno dato a questo gruppo di tecnici IT con una missione nobile e ben precisa: creare il Sistema Operativo del paese, mettendo in comunicazione Imprese, cittadini e Pubblica Amministrazione da mobile con una grande app dedicata che si chiamerà IO

Quando si parla dell’Italia, oltre al sole e al buon cibo, si pensa, alla disorganizzazione e alla lentezza della burocrazia italiana. A Milano però sono un passo avanti, si sa. In questi mesi parte la sperimentazione di IO, l’app dedicata ai servizi della Pubblica Amministrazione, disponibile, per ora, per i cittadini della city lombarda.

Novità sicuramente interessante per i cittadini. Grazie alle credenziali del Sistema Pubblico di Identità Digitale (SPID) si può accedere comodamente da smartphone a una serie di servizi e informazioni che altrimenti costerebbero ai cittadini ore di attesa non sempre proficue.  Ma ancora più interessante è la svolta per i sistemi di pagamento online, primo tra tutti Satispay, metodo scelto come opzione effettuare le piccole transazioni attraverso l’app. Se la sperimentazione dovesse dare esiti positivi e l’app espandersi a macchia d’olio sulla Penisola, chiaramente gli utenti Satispay, già in costante crescita, dilagherebbero.

 

Ma non siamo sicuri del successo del Team. L’Italia ha un grosso problema di sfiducia nel sistema, ancor di più se si tratta di tecnologia. Il nostro paese è al di sotto della media europea per quanto riguarda la diffusione dei pagamenti cashless, sia online che da smartphone. Se da un lato il timore è eccessivo, dall’altro trova leva nella scarsa alfabetizzazione informatica e nell’inadeguatezza dei sistemi di privacy a protezione dell’utilizzatore di talune app e servizi. In effetti, se ci pensate, grazie a quest’app ci porteremmo in tasca dentro al nostro smartphone, non solo alla nostra situazione finanziaria, ma insieme ad essa la nostra cartella clinica generale, lo storico dei nostri rapporti con la Sanità pubblica e in generale una miriade di informazioni molto sensibili, tutte accessibile con un solo profilo utente. C’è quindi da sperare (e da convincere la cittadinanza) che gli standard di sicurezza siano adeguati, quindi altissimi per l’app che si chiamerà appunto IO. Io perché lì dentro c’è un po’ tutto di noi, in effetti.

Il messaggio dalle istituzioni però è positivo. Sarebbe cosa buona e giusta progredire con l’educazione su più fronti. Insegnare alla cittadinanza quanto è importante, ad esempio, avere sotto controllo la propria situazione tributaria per non incorrere in sanzioni inutili causate da distrazioni o vizi burocratici o quanto sia utile conoscere e consultare in maniera rapida e funzionale tutte le agevolazioni fiscali, i contributi pubblici o gli incentivi che spesso sono sconosciuti da chi potrebbe averne accesso! L’informazione, insomma, dovrebbe arrivare prima delle lamentele per la scarsa politica di welfare italiana. Uno dei più grandi problemi del sistema assistenziale italiano, non sono gli scarsi investimenti, ma gli investimenti inutili oppure poco pubblicizzati e quindi poco fruttuosi per i cittadini e di ritorno poco fruttuosi per lo stato stesso che appare poco generoso!

Si potrebbe dire che lo stato abbia bisogno di una comunicazione più efficace, ma partiamo dagli strumenti. IO sembra essere la direzione giusta, se tutto andrà bene, il lavoro di comunicazione ed educazione all’uso dovrà essere molto massiccio! Facile vederlo funzionare bene a Milano, sfidiamo a IO a ottenere gli stessi risultati nelle campagna della maremma!

 

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Trenitalia e loyalty program: scivola sull’8 marzo

In questi giorni è sulle bacheche di tutti la gaffe di Trenitalia in occasione dell’8 marzo. L’iniziativa in questione prevede un gentile omaggio per le signore che consiste in una caramella al limone. Una caramella al limone. E non per tutte le viaggiatrici ma solo per le fortunate che viaggiano in executive o consumano un pasto presso il vagone ristorante, salvo esaurimento scorte. Insomma non un grande affare e certamente non una gran figura.

Come mai?

Partiamo dal presupposto che il tasto è dolente e per toccarlo Trenitalia avrebbe dovuto prepararsi meglio. L’8 marzo è una ricorrenza molto sentita e soprattutto oggi, sull’onda dei vari movimenti di rivendicazioni femminista di massa come il Metoo o Non una di meno. C’è da aspettarsi che qualsiasi iniziativa che riguardi questa giornata sia al vaglio delle stesse associazioni femministe.

La critica è quindi politica e sociale. Caramelle regalata solo a chi spende di più, alle altre non è concesso l’omaggio che celebra il loro essere donne.

Ma noi vogliamo analizzare un ulteriore aspetto della vicenda ed è il flop a livello di reputation e marketing. Vediamo insieme quando si utilizzano omaggi e promozioni per fare del buon marketing.

Parliamo per prima cosa di una prassi molto amata dagli italiani: i campioni omaggio!
I giovani rincorrono le hostess che distribuiscono sigarette o Redbull e le signore più in là con gli anni dimostrano eterna gratitudine a chi allunga loro un campione omaggio di crema antirughe, che regolarmente comprata costerebbe una buona fetta di pensione.
I campionoi omaggio funzionano, sia perché sono altamente democratici (vengono distribuiti a tutti indistintamente) e ci fanno assaporare qualcosa nella speranza che non potremmo più farne a meno. E a volte funziona, se il prodotto è davvero valido.

Un altro tipo di promozione è quella che si basa su scontistica, quindi denaro. In tal caso si fa leva sulla convenienza dell’affare, così conveniente da spingere all’acquisto anche di un prodotto di cui non si ha reale necessità o che non è di qualità eccelsa. Funziona più per le vendite una tantum che per la fidelizzazione del cliente.

Un discorso più complesso va fatto poi per i loyalty program che sono per loro natura continuativi e mirano alla fidelizzazione del cliente intrecciando anche diverse promozioni, dagli omaggi, agli sconti, alla semplice comunicazione diretta per coinvolgere il cliente in maniera diretta ad esempio sul miglioramento dei servizi/prodotti aziendali.

Possiamo semplificare dicendo che l’iniziativa Trenitalia potrebbe rientrare in un programma loyalty, ma diciamo anche che lo stanno facendo nel modo sbagliato. Loyalty vuol dire fedeltà, lealtà. Fiducia in senso lato.

Quando si omaggia qualcosa o si propone uno sconto, la fiducia sta nel patto che cliente e fornitore siglano silenziosamente. Fidandosi che lo sconto sia reale e la merce buona. Una caramella, in questo caso sicuramente omaggiata da Caffarel il cui nome appare in evidenza nel lieto annuncio, non sembrano un grande regalo alle donne clienti di Trenitalia. Intendiamoci le caramelle vanno benissimo se distribuite, a tutte, senza troppa pubblicità come gentile pensiero disinteressato. Ma fare del marketing sul nulla e riservando i benefit a un target molto ristretto di persone a fronte di una festa che invece riguarda indistintamente tutte le donne, è un brutto autogol da parte di un’azienda pubblica come Trenitalia.

A Trenitalia per fortuna lo hanno capito e l’annuncio è presto sparito dal loro sito internet, anche se rimane ben diffuso e deriso nel web che come sappiamo non dimentica. In compenso il suddetto annuncio ha lasciato posto a quello dello sciopero nazionale del personale del Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane indetto per la giornata dell’8 marzo.

Le Frecce però circoleranno normalmente, zeppe di squisite caramelle al limone.

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Lo State of Social del 2018 premia engagement e targettizzazione

Secondo lo State of Social 2018, report che analizza l’approccio del marketing ai social, le cose vanno bene, ma non benissimo.

La cosa più complicata quando si parla di marketing e social è capire se ha senso. Se ha un riscontro effettivo tutto questo condividere e piacere.

Il dato interessante numericamente parlando è la grande impennata dell’uso della messaggistica a fini di marketing. Il marketing via Messenger, Whatsapp e via dicendo, sta diventando una realtà che quotidianamente osserviamo sui nostri smartphone. In realtà sono però solo il 20% delle aziende intervistate quelle che hanno investito nella messaggistica istantanea per pubblicizzarsi. Vi immaginate se lo facessero tutte quante, i nostri telefoni probabilmente impazzirebbero e non di gioia. E il rischio è quello di scocciare e indisporre anche un cliente ben disposto.

Ancora e sempre più forti i social nel loro uso più “tradizionale”. Non solo, ma più del 30% degli intervistati ha dichiarato che le proprie strategie di marketing sui social sono “molto efficaci”. Addirittura? E come fate a dirlo verrebbe da chiedere. Fortunatamente la domanda successiva del sondaggio era incentrata proprio su questo dilemma. Come si misura il ROI degli investimenti social? La risposta di massa, che ha fornito quasi la metà degli intervistati, è stata con l’engagement!

Ma chi mi segue, mi compra? Eterna domanda senza risposta. Io dico: non necessariamente! Ve lo dico da superfan di Taffo Funeral Service, ma onestamente non so chi avrà l’onore di pagarmi la tomba, non ho comunque nessuna intenzione di portarmi avanti! O per fare un esempio meno macabro, anche j.Gasco ha un’ottima strategia social acchiappalike, ma io la loro tonica non l’ho mai comprata. Questi sono esempi banali, ma credo che il punto sia. Non è l’engagement, non è il numero di persone che raggiungi, ma conta molto di più la targettizzazione fatta bene prima della campagna social. Finché sbagli mira, puoi avere anche 1000 colpi in canna, ma non porterai a casa mai nulla. My two cents.

Per il resto nulla di nuovo bolle in pentola. i video vanno alla grande e sono quello su cui si scommetterà ancora in futuro, cercando di sconfiggere l’algoritmo sempre più penalizzante di Facebook. Ormai Zuckerberg tiene molto poco in considerazione i brand (sponsorizzate a parte), l’unica opzione che garantisce una buona visibilità (organica) a prescindere dalla quantità del contenuto sembra essere la diretta video. Ma .. per quale azienda è fruibile una possibilità del genere per la propria strategia di marketing? Quante aziende possono cimentarsi in dirette Facebook dalla dubbia utilità che rischiano di cadere nel ridicolo? Pochissime, principalmente chi si occupa di eventi e vuole documentarne il risultato.

Insomma tutte queste considerazioni per dirvi: il marketing cambia, cresce, decresce, si evolve, sfrutta mezzi diversi, forse più ambigui oggi, forse meno tangibili; d’altronde quando mai abbiamo potuto misurare al centimetro la riuscita di una classica campagna pubblicitaria cartellonistica, per esempio? Insomma il marketing, pur evolvendosi nelle forme e nel colore rimane efficace se sappiamo dove puntare. Non quanti, ma quali! E in questo la tecnologia può darci più di una mano, Non sarebbe meglio avere meno follower, ma reattivi, attenti, coinvolti? Loro possono essere i nostri stessi ambasciatori, loro possono incidere sul nostro business, non le folle di seguaci acquistati sparando nel mucchio.

Forse il marketing non è quella scienza che ti garantisce in automatico degli 0 sul conto corrente, ma ti garantisce, quello sì, una crescita di audience su cui tu stesso avrai il compito di essere incisivo trasformando i prospect in clienti veri e propri. Come dire, il marketing sa farti l’assist giusto, se non la metti dentro la colpa è tua.

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E se davvero la morte dei social diventasse realtà?

Mara non riesce proprio ad alzarsi dal letto oggi. Don’t stop me n…ritarda ancora una volta di 10 minuti la sua sveglia interrompendo anche il divino Freddie.

Svogliatamente alla fine si trascina in bagno, in cucina e poi a prendere l’autobus. Cinque, dieci minuti. Il suo autobus non arriva e la gente si accumula alla fermata, borbottando. In questi giorni pochi minuti di attesa sembrano eterni. Mara si avvicina alla palina degli orari e legge un foglio già sgualcito dalla pioggerellina: SCIOPERO DEI MEZZI INDETTO PER LA GIORNATA DI MERCOLEDÌ 3 DICEMBRE. Ecco spiegato il motivo del ritardo, chiama l’ufficio, nessuna risposta. Eh vabbè, si giocherà l’effetto ritardo a sorpresa.

Col fiatone e il passo felpato Mara prende posto alla sua scrivania fingendosi invisibile. L’orologio sulla sua testa segna impietoso le 9:22. Bene, PC acceso, e adesso? Mara non si è ancora arresa, ogni mattina da 5 mesi a questa parte prova ancora a cliccare al primo link dei Preferiti del browser: https://www.facebook.com/. Niente. Davvero, l’ha fatto davvero Mark. Ha ucciso Facebook, così da un giorno all’altro, senza troppe cerimonie. Un bel giorno ha mandato a tutti gli utenti, oltre due miliardi di persone, un messaggio, didascalico, impersonale. Da lui, emotivo, idealista, sentimentale, non me l’aspettavo, nè io nè nessun altro.

“Ciao, con dispiacere vi annuncio che Facebook il 28 marzo 2019 chiuderà definitivamente. Purtroppo le circostanze di cui tutti siete al corrente lo impongono e nessuna altra via è percorribile.
Grazie per aver condiviso con noi una parte di te.“

E l’ha fatto. Alle ore 06.00 del 28 marzo ora italiana (le 00:00 ET), il social network più famoso del mondo ha smesso di funzionare. Kaput.

Oggi, le 10.05 del 3 dicembre, Mara fissa il computer: un foglio di word aperto, bianco, terrificante su uno schermo, il browser sull’altro, mostra il blog di un’azienda cliente. Capirete bene che la vita da social media manager non è più tanto facile per Mara. Passa le sue mattinate a disperarsi e buttare giù riflessioni pesanti e prive di interesse per i vecchi clienti, per cercare di tenerli attaccati all’agenzia, ma sa benissimo che dovrà inventarsi qualcos’altro.

Non passa molto che Angela arriva e si siede sulla sua scrivania.

– Sushi?

– Andata.

– Vengono anche Simone e Marco.

E tutto sommato la giornata pensando al pesce crudo e all’ora d’aria sembra prendere una piega buona. In ascensore i 4 hanno tutti i telefono alla mano, ma lo fissano, senza sapere che farne. In realtà Simone guarda Mara di sottecchi oltre lo schermo, è preoccupato e innamorato.

Instagram ha retto fino a giugno, poi è deceduto anche lui, incapace di accogliere i profughi di Facebook si è impallato, ha smarrito la sua personalità giovane e glamour.

Whatsapp ha resistito ancora un mesetto, ma alle ferie non è arrivato. Deserto, senza più niente da commentare, Zuckerberg ha tagliato la corrente anche a quello, prima di trasferirsi in Giappone, oggi sì l’uomo più odiato sulla faccia della terra.

Al mishi-zushi Angela chiede il solito tavolo con i divanetti comodi per godersi i 42 minuti di pausa restanti. Nigiri, hosomaki, udon e chi più ne ha più ne metta. Simone si ingozza senza pensare neanche più a Mara che fotografa ogni piatto, non riesce a perdere l’abitudine. Ha il telefono impallato di fotografie che nè lei nè nessun altro rivedranno mai. Neanche il sushi è più lo stesso. Prima da un pranzo così le uscivano fuori una decina di post diversi da qui a 3 mesi, ora spreca solo due buoni pasto per uscire affamata dimenticandosi di mangiare il cibo che fotografa.

In ufficio comunque anche se tutto sembra tranquillo, non lo è per niente. Molte sedie traballano. C’è chi, come me, cerca di inventarsi un nuovo lavoro, ma anche informarsi è diventato complicato. Una volta le cose importanti erano tutte lì, una di fila all’altra, all’infinito. Potevi scorrere e trovare qualcosa che ti catturava l’attenzione, sia che fosse una notizia o la foto del tuo ex che adesso esce con quella che odiavi, ma che ci avresti scommesso guarda.

Fortuna che gli amici, quelli ci sono sempre, anzi, anche loro si annoiano parecchio da quando non possiamo più scambiarci screen e commenti su whatsapp. L’altro giorno mi ha chiamato Sophie, che quasi nemmeno la ricordavo la sua voce, la sua erre moscia. Siamo state al telefono venti minuti. Venti minuti non so dove li avrei trovati prima, a quell’ora della sera, sarebbe stato impensabile. Lei, invece, senza facebook ci sta benone, fa l’orto tutti i sabati anche se non pubblica più le foto del raccolto. Però ha ripreso a comprare il giornale, quello cartaceo e dice che in edicola c’è pure la coda, da novembre, ovviamente.

– Come stai?

Mi ha chiesto a fine telefonata, erano anni che non le sentivo pronunciate queste parole, scandite. Non un ciaocomestaibenegrazietu?. No, sembrava le interessasse davvero, ha atteso davvero la mia risposta.

– Sai qual è la cosa più difficile? – ha risposto Mara – che non c’è più traccia di noi. Di me e Fede. Facevamo questo gioco di mandarci le foto e i video ogni secondo libero della nostra vita, ci divertivamo a taggarci, scriverci le cose in bacheca per farci prendere in giro.

– Si, voi eravate invasati con ‘sti social però.

– Ce lo ripetevano sempre. Che la nostra relazione era nata insieme a facebook. Con un poke e una richiesta di amicizia. E siamo stati insieme 10 fottuti anni. La nostra vita insieme era reale.

– Quella non te la toglie nessuno.

– Si, io quello ok, ma non posso rileggerla come faccio con il nostro diario delle medie, hai presente quello tutto colorato, ecco. Quando mi manchi mi guardo quello, un po’ rido, un po’ piango, è la nostra storia. Di lui nulla, non si è salvato nulla della nostra vita digitale insieme.

Alla fine Mara il suo posto in agenzia l’ha tenuto. Ci è voluto un po’ di tempo per cambiare, imparare a usare le parole in maniera diversa, far sedimentare le informazioni senza accatastarle, comprimerle, violentarle. Ora è un’affermata brand journalist, usa sempre le parole per fare il suo lavoro, solo su un media differente. E i clienti spesso richiedono proprio che sia lei a occuparsi della loro immagine aziendale. Non potrebbe essere più felice Mara oggi, ha un ufficio suo, non tanto perché sia diventata importante, ma perché così può conservare tutte le riviste che ha contribuito a ideare e scrivere insieme alle aziende di cui si occupa. Le tiene lì, le sfoglia quando ha voglia di toccare con mano il suo passato.

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Ok,ok. Adesso vi spieghiamo. Questo racconto è totalmente frutto della nostra fantasia. Ma non ci siamo dati alla narrativa. Quello che volevamo fare era in realtà proporvi una piccola riflessione su cosa accadrebbe se i social tutt’a un tratto…morissero. Senza preavviso, senza cerimonie. In fondo il rischio con il caso Cambridge Analytics lo abbiamo sfiorato e forse più di quanto noi stessi ci fossimo resi conto. Questo breve racconto vuole far riflettere anche tutte quelle persone che hanno sviluppato un’avversione nei confronti dei social e talvolta dei media in generale, non rendendosi conto però di quanto siano ormai parte intrinseca della nostra quotidianità.

Si starebbe meglio senza, si starebbe peggio? Noi, pur essendo molto di parte visto il mestiere che facciamo, non abbiamo una risposta, siamo convinti che saremmo in ogni caso in grado di adattarci. La comunicazione è uno state of mind, qualsiasi mezzo è buono se si ha qualcosa da dire.

 

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IGTV: lo smartphone è pronto a sfidare il 50 pollici di casa

Le persone. dicevamo, passano molte ore al giorno su Instagram. E la community conta quasi più del canale su cui si crea, una volta che si è solidificata. Per questo per Instagram è in un momento d’oro e ne approfitta. Non a caso l’app ha deciso di scendere ora in campo con una grossa novità: l’IGTV, la tv di Instagram. Da oggi, anzi da ieri, è possibile condividere video lunghi fino a 60 minuti, (beh 10 minuti per i comuni mortali, 60 per chi fa views da capogiro) rigorosamente in VERTICALE! Solo qualche anno fa una cosa del genere era impensabile, la tv era rigorosamente orizzontale, wide screen, apprezzata su televisori tanto più grandi quanto più appaganti. Vade retro a parlare di video verticali, sintomo di incapacità e dilettantismo. Ma oggi le cose sono cambiate, anche i più snob hanno dovuto adattarsi per non venir tagliati fuori.

Chi ha più tempo, d’altronde, per restare a casa a guardare la tivù? Escludendo le fasce di età più avanzate, sono rimasti davvero in pochi i giovani a concedersi questo lusso. Meglio lo smartphone per i tempi morti, per guardare video pigramente sdraiati o seduti ovunque.

La tv di Instagram promette bene, perché nasce cavalcando il boom del social. E alcune aziende hanno già deciso di buttarsi e sperimentare, ma non chiamiamola “pubblicità”. Ormai è un concetto trito e ritrito che il messaggio promozionale fino a se stesso va morendo, o meglio, che deve arrivare alla fine di una lunga trafila disinteressata di content ad hoc, di contenuti utili e di intrattenimento a solo beneficio di chi ne usufruisce senza per forza mirare a un riscontro diretto. E per chi pensa che sia una perdita di tempo, vi accorgerete presto che sarete gli ultimi rimasti a non portare in dote nulla ai vostri possibili clienti. Sarete gli ospiti che si presentano a cena senza vino, state certi che ci penseranno due volti a invitarvi nuovamente!

Insomma l’IGTV è una possibilità, non tutti possono coglierla. Fare i video è time-consuming, servono risorse, anche per prodotti di bassa qualità tecnica. Servirà, inoltre, almeno una buona idea alla base? Quindi tempo ed esperienza, un piano editoriale alle spalle, persone sul pezzo per seguire il progetto. Non è una passeggiata. Per ora IGTV struttura principalmente in base alle nostre attuali connessioni, si tratta d’altronde di una fase embrionale della piattaforma che NON prevede la possibilità di inserire pubblicità e quindi guadagnare con i video.

Ma cosa ci dà in cambio? A parte la suddetta reputation, ci offre una cosa preziosissima in area marketing: i dati. Informazioni dettagliate su chi ci guarda, da dove, a cosa è maggiormente interessato. Questo è l’aspetto più interessante in effetti se si vuole provare a stringere qualcosa con le fantomatiche views, avendo così un ampio campione su cui studiare strategie di marketing ad hoc da distribuire con mezzi differenti.

Ikea, Nike e altri grossi brand sono già scesi in pista per la nuova sfida IGTV anche se non sembra che sviluppino contenuti nativi per la piattaforma, ma piuttosto si limitano a riadattare al canale prodotti comunicativi giù spesi altrove. Ma state in guardia, IGTV non sfida solo YouTube, mette in pericolo la vecchia e apparentemente immortale televisione, in un momento di forte crisi del piccolo schermo, e state sicuri che se si arriverà alla battaglia, sarà una lotta all’ultimo spettatore.

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Favij denuncia: YouTube sta morendo!

Per chi ha più di 20 anni il mondo di YouTube nasconde un sommerso che voi manco vi immaginate. E quindi manco io, in effetti. Incuriosito dal video da cui ho preso il titolo del celebre Favij, vlogger amatissimo dai teenager, mi sono addentrato in un mondo finora solo parzialmente conosciuto.
Per me Youtube è stato a lungo quel posto dove era facile caricare i video per poi postarli su altre piattaforme o condividerli direttamente su Youtube, insomma ne apprezzavo più che altro l’aspetto tecnico. A un certo punto è diventato anche molto utile per guardare i video musicali e quindi ascoltare musica senza dover acquistare per forza la musica (questo ovviamente prima dell’avvento di Spotify). Sicuramente era anche una piattaforma per farsi due risate guardando video di qualsiasi genere e tipo, di stampo tendenzialmente amatoriale.

Nel frattempo però, c’è stato chi con YouTube ci è cresciuto. Alcuni di quei bambini lasciati al ristorante in balia dello smartphone, ormai sono più grandicelli e hanno mangiato pane e youtuber per anni.

L’altro giorno ho avuto la conferma di essere vecchio. Tutte le testate online che si occupano di tecnologie e social commentavano con sorpresa l’abbandono da parte di Marzia Bisognin della sua floridissima carriera da youtuber. Ora, onestamente non ero nemmeno a conoscenza della sua esistenza, né del suo nome d’arte: CutiePie; ovviamente conoscerlo avrebbe ucciso sul nascere ogni mia intenzione di guardare i suoi prodotti video.

Ad ogni modo sembra che qualcosa stia accadendo nel mondo dei vlogger. CutiePie si ritira, Favij e alcuni colleghi lamentano un calo, imputato alla piattaforma, di migliaia di visualizzazioni e molti utenti si spostano su Instagram. C’è già chi la chiama rivoluzione, a me sembra solo il passaggio di una generazione.

Ma la questione non si può liquidare così in fretta. Favij nel video, diventato virale, spiega come il crollo delle visualizzazioni sia stato fulmineo, troppo repentino e drastico per essere imputato a un calo di interesse nei suoi confronti. La cosa curiosa è che ha coinciso con l’annuncio della chiusura di Google+. Cosa c’entra? C’entra e lo spiega proprio il vlogger più famoso d’Italia. Google+ è il social network strettamente connesso a Youtube, tanto che per commentare sulla piattaforma video, bisogna possedere un account su questo social network quasi sconosciuto. Guarda caso, la piattaforma annuncia la chiusura e vengono registrate centinaia di migliaia di visualizzazioni in meno…Tra l’altro chiude dopo aver annunciato (con molta calma) un data breach che avrebbe messo a rischio i dati personali di 500.000 utenti, insomma bene, ma non benissimo!

Per ora nulla di certo, comunque, e la riflessione che ci rimane in testa è quanto sia importante la community più della piattaforma stessa. Lo vediamo anche con Instagram. “La gente sta su Instagram” è la frase che sento ripetere più spesso nell’ambiente del marketing. Effettivamente alle persone piace la comodità di una piattaforma polivalente, ma ancora di più alla gente piace ritrovare e parlare con i proprio amici. E se prima erano tutti su Facebook e lì potevi messaggiare, condividere foto, video e news, ora tutto questo lo puoi fare (in maniera diversa sicuramente) su Instagram.

E su Youtube?

p.s. se lo dite agli under 16 che Youtube è morto vi prendono per pazzi. Sarà che loro l’accesso alle piattaforme “adulte” non lo possono avere, l’app Youtube è sempre la regina nel consumo dati di un/a teenager!

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Condé Nast contro la crisi schiera gli influencer sotto la guida esperta dell’inventore di Ferragni

La carta stampata è in fin di vita?

Che l’editoria non si occupi solo più di carta stampata, seppur patinata, lo avevamo capito da almeno una decina di anni. Contenuti digitali e transmediali la fanno da padrona. Oggi, però, non basta ancora. Il mondo editoriale è una giungla in cui sono in pochi ad avere le risorse necessarie per sopravvivere. Non è questo il caso di Condé Nast che con la sua storia secolare (fondata nel 1909) e le sue pubblicazioni internazionali di successo (Vanity Fair, Vogue, The New Yorker) non rischia di chiudere i battenti, ma ha risentito come tutti del crollo degli introiti pubblicitari della carta stampata.

La sfida è quindi quella di rinnovarsi, continuamente. Condé Nast Italia, per farlo, si è inventata la Condé Nast Social Talent Agency: la prima agenzia di influencer ad essere gestita da un gruppo editoriale, e che gruppo. A gestire il tutto sarà un vero social-guru, anche se il suo nome potrebbe non dirvi molto, si tratta di Riccardo Pozzoli, colui che ha creato l’impero Ferragni prima dell’era “Ferragnez” e che con Chiara, oltre che il business, divideva anche la vita privata. Con i suoi 27 influencer italiani e internazionali è il più grande incubatore di social talent in Italia.  Chi sono i prescelti? In parte sono i diplomati dalla Condé Nast Social Academy: una scuola nata per formare veri e propri professionisti dell’influencing marketing (e qui torniamo al discorso che fare solo i giornali non basta più). Altri sono stati scelti per coprire diversi settori, dal food al travel, ma con un criterio comune di base: la qualità. Più dei numeri nella scelta, ha pesato lo storytelling e le cose che i prescelti hanno avuto e avranno da dire, tanto che la parola d’ordine è #ShareRealTalent: atleti, attori, registi, fotografi saranno gli ambassador rappresentati dall’agenzia.

Il direttore ha spiegato una cosa per noi evidente, ma che molti faticano a capire: la focalizzazione, oggi che il mondo social è maturo, non sono i numeri, ma l’engagement!
I contenuti originali, vincono sui bombardamenti sponsorizzati. Non sono stati scelti professionisti del nulla, ma persone che avessero qualcosa da dire di interessante e relativo alla loro nicchia lavorativa e al loro mondo di passioni. Non dei tuttologi.

Pozzoli stesso ha dichiarato: “Il contenuto è al centro dei nostri pensieri, perché rappresenta la risposta a un bisogno condiviso da utenti e investitori. I nostri talent sono creatori di contenuto capaci di restituire più che la semplice immagine”.

Stiamo a vedere cosa combineranno i nuovi professionisti dell’influencing marketing di alta gamma. SIamo sicuri che ci sarà da imparare e da ripostare!

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Alberto Angela è la dimostrazione che i social sono amici della qualità

Sabato sera. Prima serata. Gli spettatori televisivi non sono solitamente molti, la gente preferisce uscire, approfittando del fine settimana. Se si opta per stare a casa si è soliti sintonizzare l’apparecchio televisivo su un programma divertente, rilassante o uno spettacolo, insomma, si sceglie l’intrattenimento.

Ma Alberto Angela con il suo programma Ulisse è riuscito ad incollare allo schermo quasi 4 milioni di telespettatori in un mite sabato sera di ottobre: un risultato notevole! Se ci aggiungiamo che l’argomento di sabato 13 ottobre non erano dei teneri cuccioli di capriolo o le bellezze inarrivabili della nostra Italia, ma si parlava del rastrellamento del ghetto di Roma nel 1943 (non proprio un argomento da serata al pub con gli amici), il risultato è sicuramente impressionante! Quali sono le ragioni di questo successo?

Sicuramente Ulisse è un programma di qualità e Alberto Angela è un perfetto divulgatore, ma gli ascolti (record per questa tipologia di TV) si devono anche all’esplosione del fenomeno social che lo riguarda.

Da più di un anno infatti Angela Junior è al centro dell’attenzione dei social media. Pagine facebook e gruppi privati spuntano come funghi per celebrare le doti intellettuali (e non) del più popolare conduttore televisivo del momento.

Rimanere a casa il sabato sera per guardare Ulisse con Alberto Angela è un esempio di questo fenomeno, dove il personaggio viene paragonato addirittura al campione Cristiano Ronaldo:

La fanpage ufficiale del conduttore televisivo conta circa 870.000 like, più di quelli della pagina di un programma come il Festival di Sanremo.

Ma cosa fa il figlio del celebre Piero Angela per alimentare questo successo di pubblico? Nulla più che il suo lavoro, in modo eccelso, questo va detto. La sua fama social ha preso il volo un po’ per caso e lui non ha fatto altro che cavalcare l’onda nel modo giusto, senza strafare o concentrarsi solo sul web, anzi; ha continuato a ideare e condurre i suoi documentari con la solita minuziosità ed enfasi narrativa.

Social e televisione sono due canali indipendenti e il successo su uno non sempre equivale a un buon risultato sull’altro. Se Ulisse non fosse un programma fatto bene, resterebbero famosi solo i meme su Alberto Angela e non il programma stesso. I curiosi si annoierebbero dopo i primi due minuti di trasmissione se non ne valesse la pena e continuerebbero solo a commentare il suo aspetto fisico.

Allora, qual è la morale della favola Alberto Angela che quasi eguaglia i risultati portati a casa da Maria de Filippi con il ben più leggero Tu sì que vales? Che i social sono un ottimo strumento di marketing e di reputation, che vanno sfruttati anche se non fanno direttamente parte del nostro mestiere perché possono portare un ritorno positivo proprio al nostro lavoro, ma solo se continuiamo a farlo bene.  

 

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Adam Mosseri dichiara guerra al cyberbullismo su Instagram

Il nuovo gran capo di Instagram vuole sconfiggere il cyberbullismo sfruttando il machine learning.

In questi giorni si sente parlare spesso di machine learning. In parole povere si tratta di una branca dell’intelligenza artificiale che riguarda la capacità delle macchine di “imparare” da una serie di dati, dall’esperienza, se vogliamo, e in base a quanto appreso, attuare delle decisioni. Il machine learning si può applicare alla guida autonoma (le auto senza pilota o con pilota passivo) o più banalmente a catalogo di Netflix che cambia in base alle nostre scelte.

Oggi Instagram vuole utilizzarlo per un nobile intento: la lotta al cyberbullismo. Ad annunciarlo è Adam Mosseri, da pochi giorni a capo della ricchissima piattaforma digitale. Esiste già, infatti, il classico metodo di segnalazione da parte degli utenti in caso di post ritenuti in qualche modo violenti o inadatti alla policy aziendale, ma da oggi un algoritmo complesso analizzerà i nostri post video e fotografici e gli annessi testi, a caccia di elementi che possano ricondurli a un atto di bullismo. A quel punto i post in oggetto verranno sottoposti a un team dedicato che provvederanno a una verifica di natura “umana” e non automatizzata, per cercare di essere quanto più precisi possibili.

Una bella iniziativa, sicuramente, sia eticamente, che in termini di reputation per il neo-eletto chief di Instagram. Anche il bullismo, infatti, sta al passo coi tempi e da anni si è spostato in maniera massiva sui social. Un argomento complesso quanto delicato. Proprio per questo la soluzione ideata da Instagram sembra essere più che buona. Le macchine individueranno tutti i post “sospetti”, ma sarà poi il giudizio umano a valutare di caso in caso gli eventuali provvedimenti, scongiurando così anche di penalizzare l’innocente sarcasmo!