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Grafica Strategia

Il biglietto da visita è il santino che non passa mai di moda

Di recente vi abbiamo parlato di calendari cartacei obsoleti. Oggi vi vogliamo dire due cose sui biglietti da visita. Ecco, qui la questione cambia radicalmente. Qui esce, in effetti, il feticista del santino che giace in molti di noi.

I biglietti da visita sono ancora fondamentali. Diciamo che sono fondamentali come le pagine FB delle attività B2B, a volte non servono a una mazza, ma se non le hai, è peggio! Una fregatura, insomma, perché hanno importanza solo quando mancano, ma non danno un gran beneficio quando ci sono. Allora l’unica soluzione è continuare imperterriti a farli, contro il tempo che avanza, i QR code, i Simper sul telefonino che ti danno il nome del chiamante anche se non lo hai nella tua rubrica e il mare magnum dell’internet che è in grado di rintracciare una persona che hai incontrato mettendo insieme tutte le tue tracce digitali.

Se bisogna assolutamente continuare a farli, bisogna farli belli, almeno. Studi clinici dimostrano che un bigliettino colorato previene la malattia dell’oblio e del cestino raccolta-carta. Scherzi a parte, davvero recenti studi sostengono (e mi pare anche abbastanza ovvio) che più i bigliettini sono “belli” e meno banali, meno finiscono nel cestino o nel dimenticatoio.

Quindi tanto vale sfruttare la magia della grafica. Una spruzzata di Illustrator, un pizzico di Indesign e anche il grigio bigliettino dell’idraulico può diventare il cartonato di Super Mario. Certo, in medio stat virtus e non è bene neanche strafare, sia perché spendere 500 euro per racimolare, forse, un cliente che ti compra una guarnizione non è una grande idea, sia perché l’eccentricità va bene se lavoriamo nel fantastico mondo della creatività, altrimenti meglio andare sul classico con un pizzico di colore in più, che male non fa.

Insomma non sto a spiegarvi tutti i trucchi del mestiere, contattateci e vi suggeriremo il biglietto da visita adatto a voi: quadrato, rettangolare, cubico, tridimensionale, caleidoscopico, ce n’è per tutti i gusti. Non vi illudete, il bigliettino da visita non muore mai, come i santini, ce lo porteremo appresso, in secula seculorum!

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Social

E se davvero la morte dei social diventasse realtà?

Mara non riesce proprio ad alzarsi dal letto oggi. Don’t stop me n…ritarda ancora una volta di 10 minuti la sua sveglia interrompendo anche il divino Freddie.

Svogliatamente alla fine si trascina in bagno, in cucina e poi a prendere l’autobus. Cinque, dieci minuti. Il suo autobus non arriva e la gente si accumula alla fermata, borbottando. In questi giorni pochi minuti di attesa sembrano eterni. Mara si avvicina alla palina degli orari e legge un foglio già sgualcito dalla pioggerellina: SCIOPERO DEI MEZZI INDETTO PER LA GIORNATA DI MERCOLEDÌ 3 DICEMBRE. Ecco spiegato il motivo del ritardo, chiama l’ufficio, nessuna risposta. Eh vabbè, si giocherà l’effetto ritardo a sorpresa.

Col fiatone e il passo felpato Mara prende posto alla sua scrivania fingendosi invisibile. L’orologio sulla sua testa segna impietoso le 9:22. Bene, PC acceso, e adesso? Mara non si è ancora arresa, ogni mattina da 5 mesi a questa parte prova ancora a cliccare al primo link dei Preferiti del browser: https://www.facebook.com/. Niente. Davvero, l’ha fatto davvero Mark. Ha ucciso Facebook, così da un giorno all’altro, senza troppe cerimonie. Un bel giorno ha mandato a tutti gli utenti, oltre due miliardi di persone, un messaggio, didascalico, impersonale. Da lui, emotivo, idealista, sentimentale, non me l’aspettavo, nè io nè nessun altro.

“Ciao, con dispiacere vi annuncio che Facebook il 28 marzo 2019 chiuderà definitivamente. Purtroppo le circostanze di cui tutti siete al corrente lo impongono e nessuna altra via è percorribile.
Grazie per aver condiviso con noi una parte di te.“

E l’ha fatto. Alle ore 06.00 del 28 marzo ora italiana (le 00:00 ET), il social network più famoso del mondo ha smesso di funzionare. Kaput.

Oggi, le 10.05 del 3 dicembre, Mara fissa il computer: un foglio di word aperto, bianco, terrificante su uno schermo, il browser sull’altro, mostra il blog di un’azienda cliente. Capirete bene che la vita da social media manager non è più tanto facile per Mara. Passa le sue mattinate a disperarsi e buttare giù riflessioni pesanti e prive di interesse per i vecchi clienti, per cercare di tenerli attaccati all’agenzia, ma sa benissimo che dovrà inventarsi qualcos’altro.

Non passa molto che Angela arriva e si siede sulla sua scrivania.

– Sushi?

– Andata.

– Vengono anche Simone e Marco.

E tutto sommato la giornata pensando al pesce crudo e all’ora d’aria sembra prendere una piega buona. In ascensore i 4 hanno tutti i telefono alla mano, ma lo fissano, senza sapere che farne. In realtà Simone guarda Mara di sottecchi oltre lo schermo, è preoccupato e innamorato.

Instagram ha retto fino a giugno, poi è deceduto anche lui, incapace di accogliere i profughi di Facebook si è impallato, ha smarrito la sua personalità giovane e glamour.

Whatsapp ha resistito ancora un mesetto, ma alle ferie non è arrivato. Deserto, senza più niente da commentare, Zuckerberg ha tagliato la corrente anche a quello, prima di trasferirsi in Giappone, oggi sì l’uomo più odiato sulla faccia della terra.

Al mishi-zushi Angela chiede il solito tavolo con i divanetti comodi per godersi i 42 minuti di pausa restanti. Nigiri, hosomaki, udon e chi più ne ha più ne metta. Simone si ingozza senza pensare neanche più a Mara che fotografa ogni piatto, non riesce a perdere l’abitudine. Ha il telefono impallato di fotografie che nè lei nè nessun altro rivedranno mai. Neanche il sushi è più lo stesso. Prima da un pranzo così le uscivano fuori una decina di post diversi da qui a 3 mesi, ora spreca solo due buoni pasto per uscire affamata dimenticandosi di mangiare il cibo che fotografa.

In ufficio comunque anche se tutto sembra tranquillo, non lo è per niente. Molte sedie traballano. C’è chi, come me, cerca di inventarsi un nuovo lavoro, ma anche informarsi è diventato complicato. Una volta le cose importanti erano tutte lì, una di fila all’altra, all’infinito. Potevi scorrere e trovare qualcosa che ti catturava l’attenzione, sia che fosse una notizia o la foto del tuo ex che adesso esce con quella che odiavi, ma che ci avresti scommesso guarda.

Fortuna che gli amici, quelli ci sono sempre, anzi, anche loro si annoiano parecchio da quando non possiamo più scambiarci screen e commenti su whatsapp. L’altro giorno mi ha chiamato Sophie, che quasi nemmeno la ricordavo la sua voce, la sua erre moscia. Siamo state al telefono venti minuti. Venti minuti non so dove li avrei trovati prima, a quell’ora della sera, sarebbe stato impensabile. Lei, invece, senza facebook ci sta benone, fa l’orto tutti i sabati anche se non pubblica più le foto del raccolto. Però ha ripreso a comprare il giornale, quello cartaceo e dice che in edicola c’è pure la coda, da novembre, ovviamente.

– Come stai?

Mi ha chiesto a fine telefonata, erano anni che non le sentivo pronunciate queste parole, scandite. Non un ciaocomestaibenegrazietu?. No, sembrava le interessasse davvero, ha atteso davvero la mia risposta.

– Sai qual è la cosa più difficile? – ha risposto Mara – che non c’è più traccia di noi. Di me e Fede. Facevamo questo gioco di mandarci le foto e i video ogni secondo libero della nostra vita, ci divertivamo a taggarci, scriverci le cose in bacheca per farci prendere in giro.

– Si, voi eravate invasati con ‘sti social però.

– Ce lo ripetevano sempre. Che la nostra relazione era nata insieme a facebook. Con un poke e una richiesta di amicizia. E siamo stati insieme 10 fottuti anni. La nostra vita insieme era reale.

– Quella non te la toglie nessuno.

– Si, io quello ok, ma non posso rileggerla come faccio con il nostro diario delle medie, hai presente quello tutto colorato, ecco. Quando mi manchi mi guardo quello, un po’ rido, un po’ piango, è la nostra storia. Di lui nulla, non si è salvato nulla della nostra vita digitale insieme.

Alla fine Mara il suo posto in agenzia l’ha tenuto. Ci è voluto un po’ di tempo per cambiare, imparare a usare le parole in maniera diversa, far sedimentare le informazioni senza accatastarle, comprimerle, violentarle. Ora è un’affermata brand journalist, usa sempre le parole per fare il suo lavoro, solo su un media differente. E i clienti spesso richiedono proprio che sia lei a occuparsi della loro immagine aziendale. Non potrebbe essere più felice Mara oggi, ha un ufficio suo, non tanto perché sia diventata importante, ma perché così può conservare tutte le riviste che ha contribuito a ideare e scrivere insieme alle aziende di cui si occupa. Le tiene lì, le sfoglia quando ha voglia di toccare con mano il suo passato.

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Ok,ok. Adesso vi spieghiamo. Questo racconto è totalmente frutto della nostra fantasia. Ma non ci siamo dati alla narrativa. Quello che volevamo fare era in realtà proporvi una piccola riflessione su cosa accadrebbe se i social tutt’a un tratto…morissero. Senza preavviso, senza cerimonie. In fondo il rischio con il caso Cambridge Analytics lo abbiamo sfiorato e forse più di quanto noi stessi ci fossimo resi conto. Questo breve racconto vuole far riflettere anche tutte quelle persone che hanno sviluppato un’avversione nei confronti dei social e talvolta dei media in generale, non rendendosi conto però di quanto siano ormai parte intrinseca della nostra quotidianità.

Si starebbe meglio senza, si starebbe peggio? Noi, pur essendo molto di parte visto il mestiere che facciamo, non abbiamo una risposta, siamo convinti che saremmo in ogni caso in grado di adattarci. La comunicazione è uno state of mind, qualsiasi mezzo è buono se si ha qualcosa da dire.

 

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il Brand Journalism va sempre più forte

Oggi ogni brand ha la possibilità di diventare editore di se stesso.

Non è la novità dell’ultimo minuto, il brand journalism, soprattutto oltreoceano, esiste da un bel po’. Ma di anno in anno acquista sempre più credibilità e qualità.

Nasce negli USA e la prima azienda moderna a usare il brand journalism come evoluzione del marketing è stata il colosso dei fast-food, McDonald che con il suo allora capo dell’ufficio marketing, Larry Light, decise di combattere le polemiche sulla qualità del cibo della catena avvalendosi di veri e propri reporter che narrassero la storia del brand e lo facessero attraverso storie vere e dati reali.

Il brand journalism è pur sempre giornalismo. Quello che tenta di offrire è un servizio. Lo abbiamo ripetuto spesso. La pubblicità fine a se stessa non basta più, anzi, spesso viene evitata come la peste. Il racconto dell’azienda o del settore in cui l’azienda si muove è un servizio informativo che può arricchire l’immaginario del lettore e papabile cliente e soddisfare la sua sete di conoscenza e curiosità riguardo la vita dell’azienda o di chi ne fa parte.

Lo ha fatto benissimo Red Bull arrivando perfino a stampare una versione cartacea della sua rivista che racconta l’universo di riferimento del prodotto, più che il prodotto stesso. In America, in edicola è tuttora reperibile The Red Bulletin, la rivista, edita dalla casa produttrice di energy drink, che racconta gli sport estremi e la musica, le tendenze di quella fascia di età giovane e principale consumatrice del prodotto.

Ma oggi il concetto si è allargato a dismisura. Così come il journalism tradizionalmente inteso non esiste più figuriamoci la sua connotazione markettara. Le ricette da cucina nelle storie Instagram potrebbero essere una nuova frontiera del brand journalism per chi vende lievito, ad esempio. Infinite sono le declinazioni e le prospettive, anche professionali.

Chi è, infatti, il brand journalist?

Principalmente una figura ibrida. Un giornalista, con la crisi della carta stampata che c’è sono molti infatti a dover virare sul marketing e a reinventarsi. O potrebbe essere tranquillamente un copy interno all’azienda che conosce a menadito la corporate preposition, la storia dell’azienda e il contesto in cui si muove. Per questo motivo il brand journalism è difficile da esternalizzare, per cui non è una roba da imprese a conduzione famigliare. L’ideale sarebbe una figura dedicata (o più facilmente più di una) e chi può permettersela sono le grandi aziende. Quelle che possono finanziare un team ad hoc che si lanci nella creazione di servizi video, reportage, ecc.

Insomma il brand journalism fatto bene forse non è per tutti, ma a tutti può insegnare qualcosa su come parlare ai propri prospect, offrendo come sempre, qualcosa in dono.

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Grafica

Nel 2018 il calendario aziendale è ancora un valido gadget (?)

Nel 2018 come nel 2060 ci sentiamo di dire.

Oggi che è tutto digital & social, forse sarete stupiti di sapere che uno dei gadget ancora tra i più richiesti è il classico calendarietto da ufficio. Sì, quello aziendale con il logo e i contatti per intenderci. Perché?

Di motivazioni che sono alla base della resilienza alla digital revolution potremmo trovarne a bizzeffe. Iniziamo a parlare della nostra passione, particolarmente italiana, per i “feticci”. Tutto ciò che è tangibile ha in qualche modo un valore maggiore per chi lo riceve. Poco importa se su Google Calendar puoi fare una serie di azioni che sulla carta, ahimè, te le scordi, tipo sincronizzare il calendario con le tue app lavorative o visualizzare simultaneamente i tuoi impegni e quello di uno specifico gruppo di contatti (colleghi, famigliari, ecc.). Ma vuoi mettere tutto ciò con la possibilità dello scarabocchio libero e creativo che il cartaceo ti da?

La verità è che siamo ancora troppo attaccati alla fisicità delle cose, perché tutti coloro che sono nati fino ancora ai primi anni ’90 hanno una forma mentis che è legata ad essa.

Questo ci pone davanti a una sfida che sa di retrò. Il design del calendario.

Siamo una web agency e i nostri grafici sono quotidianamente indaffarati con layout web da far quadrare in CSS, HTML e così via. Non che sia facile, ma al massimo li sentiamo discutere con il programmatore su come fare questo o quello, come far risaltare meglio la loro idea che non sempre è applicabile al 100% in programmazione.

Ma il cartaceo è tutto un altro universo. Qui non basta scrivere una riga di codice che ordini al testo di allinearsi fedelmente a questo o a quell’oggetto o che lo formatti sempre uguale a se stesso, preciso, pulito. Quando si lavora per la carta, bisogna fare attenzione all’impaginazione per lo stampatore, oltre che immaginarsi come sarà invece una volta realizzato. Capovolgere, girare le pagine, pensare ad abbondaggi e allineamenti, disporre i segni di taglio. Insomma bisogna fare attenzione a tutto. Ricordarsi, ad esempio, che è necessario lavorare in quadricromia (CMYK) altrimenti i colori stampati rischiano di essere deludenti rispetto all’anteprima digitale!

Tutto questo non significa che nel web ci si possa permettere di essere meno precisi, ma se qualcosa non funziona è il sistema stesso a segnalarlo, a non funzionare, a creare un bug che andrà quindi corretto e si fa (quasi) sempre a tempo.

La carta è one-shot o la va o la strappa (il cliente). Un errore stupido come uno spazio al posto sbagliato che disallinea due pagine affiancate, può rovinare il lavoro intero e renderlo inutilizzabile.

Noi siamo sempre schierati dalla parte del web perché apre infinite possibilità, anche e soprattutto alla creatività e a una grafica immersiva che può offrire molto più di quanto non possa fare la carta stampata. Ma sappiamo che per andare lontano bisogna partire dall’origine e padroneggiare gli strumenti antenati del web per prenderne il buono e fare qualcosa di grande con lo stile dei migliori prodotti stampati e gli strumenti più avanzati del web development!

 

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Web

Walà: la zona grigia della sharing economy è servita!

Airbnb, BlaBlacar, JustEat, Car2go. Ma quanto è diversa la vita da quando c’è la sharing economy?


Possiamo affittare una casa dall’oggi al domani, mangiare sushi comodamente seduti sul divano nel giro di mezz’ora da quando veniamo assaliti da un’irrefrenabile voglia di pesce crudo, e possiamo tornare a casa nel cuore della notte quando piove e degli autobus neanche l’ombra, tutto grazie a queste app. Non solo. La sharing economy ha cambiato il nostro modo di pensare e di “esigere”, ma ha soprattutto creato un contesto fiscale nuovo e difficile da inquadrare.

App come Airbnb nascono per semplificarci la vita, ma poi c’è chi subodora reali possibilità di guadagno e subito ne fa un mestiere. Forse non sapete, infatti, che esistono persone pagate per fare da host ai clienti Airbnb. Persone che arrotondano, ma anche qualcosa in più, accogliendo gli ospiti e dando loro le chiavi, offrendo un’ospitalità impeccabile e facendo così salire la reputation dell’utente/host, fondamentale per attirare nuovi affittuari.

La stessa cosa è successa o (per quanto riguarda l’Italia stava per succedere) con Uber. Una piattaforma per offrire passaggi informali si è trasformata in una minaccia o, presunta tale, per i tassisti del nostro Paese che si sono ribellati e hanno fatto chiudere i battenti al servizio che, invece, nel resto del mondo funziona benissimo e ha reclutato migliaia di autisti che portano a casa un vero stipendio grazie ai passaggi dati qua e là in giro per la città. Per non parlare di Blablacar che è sotto accusa da parte di molte compagnie di trasporto per la concorrenza sleale che a detta loro produce.

Notizia freschissima è la nascita di Walà per ora attiva solamente a Milano. Si tratta dell’app sharing dedicata ai fattorini. Walà è una delivery community, infatti. Tutti possono diventare fattorini di qualsiasi cosa (o quasi). Si basa sulla disponibilità degli utenti iscritti come runner a portarti ciò che hai richiesto, dove lo hai richiesto.

Da utente potrai decidere di acquistare dal tuo negozio preferito o da un negozio nelle vicinanze un prodotto che non hai tempo, modo o voglia di andarti a prendere, mentre qualcuno sarà ben felice di portartelo a casa o sul luogo di lavoro o dovunque voi siate. (a patto che sia a Milano).  La cosa interessante è la possibilità di stabilire da parte di chi si offre come fattorino, una mancia arbitrariamente decisa da chi trasporta la merce. Potere ai rider quindi!

Si, ma quello che ci chiediamo e come sarà gestita questa situazione, fiscalmente parlando. Dato che le mance non sono tassate sul nascere da Walà, come si terrà traccia dei pagamenti per la regolare contribuzione? Il problema non si porrebbe per chi arrotonda con l’app mentre porta avanti gli studi, ma cosa succederebbe se, come spesso accade, la piattaforma dovesse avere molto successo ed essere utilizzata come “facilitatore” per consegnare addirittura le proprie merci con qualche trucchetto e profilo in più?

Siamo assolutamente convinti che la sharing economy sia un passo avanti e non un problema, ma come tutte le piccole rivoluzioni, dopo un iniziale periodo di vuoto normativo fisiologico, necessiti di una “regolata” per non penalizzare gli altri attori del mercato e soprattutto per creare utilizzi impropri e non del tutto “legali” del concetto di share!

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Grafica Web

Gruppo E: un buon esempio di immagine coordinata efficace e di impatto

Abbiamo di recente terminato un lavoro lungo e affascinante di cui vorremmo parlarvi perché ci rende particolarmente orgogliosi. Il cliente è il Gruppo E e le 4 aziende che ne sono parte. Il nostro compito è stato quello di ripensare in alcuni casi o inventare ex-novo, la grafica e la comunicazione di questi brand e costruirne l’immagine coordinata. Abbiamo dovuto quindi fare leva sulle nostre competenze di web agency, content curation e di strategia di marketing.

Non è facile stravolgere l’immagine di un’azienda, figuriamoci di 4!

La sfida infatti era far sì che di ogni azienda si intuisse la peculiarità, ma che al tempo stesso ci fosse una coerenza grafica e comunicativa di base. Parlando con i rappresentanti delle diverse anime che componevano il gruppo, ci siamo fatti un’idea di quello che poteva incontrare maggiormente il gusto dei nostri clienti. Abbiamo scelto di usare il mondo del Sci-fi come filo comune, partendo da uno dei brand con cui già collaboravamo: MediaSecure.

4 personaggi per 4 azienda. Ogni personaggio incarna le peculiarità delle aziende:

Confrontato con gli altri personaggi, Ergon è il guardiano con le dimensioni più importanti. Anche considerato individualmente, il suo aspetto trasmette forza e autorità.

Le venature che attraversano l’armatura hanno una tonalità particolarmente accesa, un azzurro al neon che recupera l’attuale colore del logo ma lo proietta in un’ambientazione  sci-fi fortemente digitalizzata. L’obiettivo era realizzare un avatar che incarnasse il mondo hi-tech, coerente con la mission del brand ma anche in grado di adeguare l’immagine aziendale alla modernità dei giorni nostri.

L’armatura richiama volutamente quella degli altri guerrieri del gruppo, ma il personaggio scelto per identificare Estrobit presenta peculiarità tutte sue: egli, infatti, è un mago in grado di generare codice con le proprie mani. Un potere che riflette la mission aziendale – la realizzazione di software – proiettando immediatamente il potenziale acquirente in una dimensione hi-tech in cui è possibile, come per magia, dare origine a nuovi programmi. Il colore rosso accende il colore attuale del logo con un neon che restituisce un immaginario digitalizzato e moderno.

MediaSecure si occupa di Sicurezza Informatica e il suo personaggio è proprio una sentinella, un guardiano che vigila sul perimetro della tua azienda e mira a debellare le minacce che popolano la rete. Il personaggio è un avatar che può dare un volto ai prodotti MediaSecure e un potenziale protagonista dell’advertising aziendale. Diventa così possibile creare una comunicazione molto accattivante, basata su un immaginario moderno, assimilabile a videogame e comics, rendendo l’aspetto dei prodotti più friendly e al passo coi tempi.

Il branding di Neboola deriva direttamente dai servizi cloud-based offerti dalla società. Abbiamo giocato sul concetto di “cloud” – “nuvola”, ideando un personaggio che avesse come peculiarità il volo. Le sembianze femminili richiamano il nome del brand e il colore viola conferisce all’immagine aziendale un aspetto particolarmente originale. Inoltre, accostando le diverse identità del Gruppo, questo colore si differenzia da tutti gli altri.

Partendo dai personaggi e da una narrazione che si sviluppa intorno ad essi abbiamo realizzato i 5 siti web (sviluppo di un sito internet per ogni brand e uno dedicato al gruppo), mettendo al centro i servizi caratteristici di ogni brand e dando grande rilievo alla parte grafica personalizzata che valorizza ogni portale. Particolare attenzione è stata data anche ai contenuti testuali che pur trattando materie molto tecniche, cercano di rimanere comprensibili a tutti i possibili visitatori del sito, anche ai meno esperti in materia IT. Una sfida di web development e di copywriting assolutamente interessante.

Abbiamo poi sviluppato in toto l’immagine coordinata attraverso il la grafica e il design di tutta l’immagine coordinata, i nuovi biglietti da visita, la nuova carta intestata e le nuove grafiche necessarie alle attività quotidiane dell’azienda (grafiche PPT, roll-up. brochure, etc).

In questo modo non abbiamo tralasciato alcun dettaglio e abbiamo offerto al cliente un nuovo pack grafico completo che fosse di grande impatto per i clienti attuali e futuri del gruppo E.

Insomma una forte attività di web agency, collegata a content curation e tanta strategia di marketing. La sfida del Gruppo E non è ancora terminata, da ora in poi qualsiasi gadget aziendale dovrà essere perfettamente coerente con lo stile finora sviluppato e soprattutto dovrà continuare a stupire come ha fatto fino ad ora, non sarà facile, ma i nostri guerrieri ci daranno una mano!

La mention di ieri sui social ufficiali del cliente sulla chiusura della prima parte della attività di rebranding ci ha ovviamente fatto 4 volte felici!

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Tendenze

Kawasaki colora di verde il Museo Fratelli Cozzi

Lunedì il Museo Fratello Cozzi si è tinto di verde Kawasaki.

L’azienda giapponese ha infatti scelto di ambientare la consueta cena di gala annuale, organizzata per premiare i concessionari italiani più virtuosi, proprio nella location di Legnano. Quest’anno, poi, Kawasaki festeggia 50 anni sul mercato italiano e ne ha approfittato per fare le cose in grande.

Per noi di Villa Consulting è stata una sfida e un piacere gestire la serata, che è riuscita alla perfezione. Un grande evento come questo è l’occasione ideale per entrare in contatto con un sacco di gente proveniente da contesti diversi ed è difficile e sfidante accontentare tutti.

La sfida, appunto, inizia presto la mattina con l’arrivo degli allestitori e dei fornitori, ognuno con le proprie esigente chiaramente. Richieste che spesso cozzano tra loro in una guerra all’ultimo centimetro. Il nostro compito è quello di essere in parte mediatori, in parte dittatori. Conosciamo molto bene la location e possiamo permetterci di dire con certezza come è meglio disporre alcuni elementi fondamentali oppure quali cose sono assolutamente da evitare per la sicurezza dell’evento. Su questo non possiamo transigere e i 30mila passi percorsi dalla mattina fino a tarda sera sono la testimonianza più evidente della nostra passione.

Ci trasformiamo anche in registi all’occorrenza quando viene fuori qualche intoppo tecnico tra videoproiettori, device di varia natura e formati video. E state certi che di supporto c’è sempre bisogno! L’importante è farsi trovare sul pezzo sempre, esserci sia fisicamente che con la testa. E tutto fila che è una meraviglia tra un bicchiere di Prosecco e una Kawasaki Ninja ZX che sta lì a farsi ammirare in tutta la sua sportività.

ll Museo Fratelli Cozzi è una location così particolare e affascinante che difficilmente delude.

Che tu sia giapponese o italiano, che tu lavori per Kawasaki o Vodafone, quando scendi le scale del Museo e ad accoglierti trovi le tavole imbandite circondate dai modelli Alfa Romeo che hanno fatto la storia, è facile rimanere senza parole. Anche questa volta si è scatenato l’applauso degli ospiti colpiti da tutta quella bellezza sui generis: dove la storia incontra il mito e ti gusti un piatto di tortelli mentre ammiri il profilo del “gobbone”.

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IGTV: lo smartphone è pronto a sfidare il 50 pollici di casa

Le persone. dicevamo, passano molte ore al giorno su Instagram. E la community conta quasi più del canale su cui si crea, una volta che si è solidificata. Per questo per Instagram è in un momento d’oro e ne approfitta. Non a caso l’app ha deciso di scendere ora in campo con una grossa novità: l’IGTV, la tv di Instagram. Da oggi, anzi da ieri, è possibile condividere video lunghi fino a 60 minuti, (beh 10 minuti per i comuni mortali, 60 per chi fa views da capogiro) rigorosamente in VERTICALE! Solo qualche anno fa una cosa del genere era impensabile, la tv era rigorosamente orizzontale, wide screen, apprezzata su televisori tanto più grandi quanto più appaganti. Vade retro a parlare di video verticali, sintomo di incapacità e dilettantismo. Ma oggi le cose sono cambiate, anche i più snob hanno dovuto adattarsi per non venir tagliati fuori.

Chi ha più tempo, d’altronde, per restare a casa a guardare la tivù? Escludendo le fasce di età più avanzate, sono rimasti davvero in pochi i giovani a concedersi questo lusso. Meglio lo smartphone per i tempi morti, per guardare video pigramente sdraiati o seduti ovunque.

La tv di Instagram promette bene, perché nasce cavalcando il boom del social. E alcune aziende hanno già deciso di buttarsi e sperimentare, ma non chiamiamola “pubblicità”. Ormai è un concetto trito e ritrito che il messaggio promozionale fino a se stesso va morendo, o meglio, che deve arrivare alla fine di una lunga trafila disinteressata di content ad hoc, di contenuti utili e di intrattenimento a solo beneficio di chi ne usufruisce senza per forza mirare a un riscontro diretto. E per chi pensa che sia una perdita di tempo, vi accorgerete presto che sarete gli ultimi rimasti a non portare in dote nulla ai vostri possibili clienti. Sarete gli ospiti che si presentano a cena senza vino, state certi che ci penseranno due volti a invitarvi nuovamente!

Insomma l’IGTV è una possibilità, non tutti possono coglierla. Fare i video è time-consuming, servono risorse, anche per prodotti di bassa qualità tecnica. Servirà, inoltre, almeno una buona idea alla base? Quindi tempo ed esperienza, un piano editoriale alle spalle, persone sul pezzo per seguire il progetto. Non è una passeggiata. Per ora IGTV struttura principalmente in base alle nostre attuali connessioni, si tratta d’altronde di una fase embrionale della piattaforma che NON prevede la possibilità di inserire pubblicità e quindi guadagnare con i video.

Ma cosa ci dà in cambio? A parte la suddetta reputation, ci offre una cosa preziosissima in area marketing: i dati. Informazioni dettagliate su chi ci guarda, da dove, a cosa è maggiormente interessato. Questo è l’aspetto più interessante in effetti se si vuole provare a stringere qualcosa con le fantomatiche views, avendo così un ampio campione su cui studiare strategie di marketing ad hoc da distribuire con mezzi differenti.

Ikea, Nike e altri grossi brand sono già scesi in pista per la nuova sfida IGTV anche se non sembra che sviluppino contenuti nativi per la piattaforma, ma piuttosto si limitano a riadattare al canale prodotti comunicativi giù spesi altrove. Ma state in guardia, IGTV non sfida solo YouTube, mette in pericolo la vecchia e apparentemente immortale televisione, in un momento di forte crisi del piccolo schermo, e state sicuri che se si arriverà alla battaglia, sarà una lotta all’ultimo spettatore.

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Social Web

Favij denuncia: YouTube sta morendo!

Per chi ha più di 20 anni il mondo di YouTube nasconde un sommerso che voi manco vi immaginate. E quindi manco io, in effetti. Incuriosito dal video da cui ho preso il titolo del celebre Favij, vlogger amatissimo dai teenager, mi sono addentrato in un mondo finora solo parzialmente conosciuto.
Per me Youtube è stato a lungo quel posto dove era facile caricare i video per poi postarli su altre piattaforme o condividerli direttamente su Youtube, insomma ne apprezzavo più che altro l’aspetto tecnico. A un certo punto è diventato anche molto utile per guardare i video musicali e quindi ascoltare musica senza dover acquistare per forza la musica (questo ovviamente prima dell’avvento di Spotify). Sicuramente era anche una piattaforma per farsi due risate guardando video di qualsiasi genere e tipo, di stampo tendenzialmente amatoriale.

Nel frattempo però, c’è stato chi con YouTube ci è cresciuto. Alcuni di quei bambini lasciati al ristorante in balia dello smartphone, ormai sono più grandicelli e hanno mangiato pane e youtuber per anni.

L’altro giorno ho avuto la conferma di essere vecchio. Tutte le testate online che si occupano di tecnologie e social commentavano con sorpresa l’abbandono da parte di Marzia Bisognin della sua floridissima carriera da youtuber. Ora, onestamente non ero nemmeno a conoscenza della sua esistenza, né del suo nome d’arte: CutiePie; ovviamente conoscerlo avrebbe ucciso sul nascere ogni mia intenzione di guardare i suoi prodotti video.

Ad ogni modo sembra che qualcosa stia accadendo nel mondo dei vlogger. CutiePie si ritira, Favij e alcuni colleghi lamentano un calo, imputato alla piattaforma, di migliaia di visualizzazioni e molti utenti si spostano su Instagram. C’è già chi la chiama rivoluzione, a me sembra solo il passaggio di una generazione.

Ma la questione non si può liquidare così in fretta. Favij nel video, diventato virale, spiega come il crollo delle visualizzazioni sia stato fulmineo, troppo repentino e drastico per essere imputato a un calo di interesse nei suoi confronti. La cosa curiosa è che ha coinciso con l’annuncio della chiusura di Google+. Cosa c’entra? C’entra e lo spiega proprio il vlogger più famoso d’Italia. Google+ è il social network strettamente connesso a Youtube, tanto che per commentare sulla piattaforma video, bisogna possedere un account su questo social network quasi sconosciuto. Guarda caso, la piattaforma annuncia la chiusura e vengono registrate centinaia di migliaia di visualizzazioni in meno…Tra l’altro chiude dopo aver annunciato (con molta calma) un data breach che avrebbe messo a rischio i dati personali di 500.000 utenti, insomma bene, ma non benissimo!

Per ora nulla di certo, comunque, e la riflessione che ci rimane in testa è quanto sia importante la community più della piattaforma stessa. Lo vediamo anche con Instagram. “La gente sta su Instagram” è la frase che sento ripetere più spesso nell’ambiente del marketing. Effettivamente alle persone piace la comodità di una piattaforma polivalente, ma ancora di più alla gente piace ritrovare e parlare con i proprio amici. E se prima erano tutti su Facebook e lì potevi messaggiare, condividere foto, video e news, ora tutto questo lo puoi fare (in maniera diversa sicuramente) su Instagram.

E su Youtube?

p.s. se lo dite agli under 16 che Youtube è morto vi prendono per pazzi. Sarà che loro l’accesso alle piattaforme “adulte” non lo possono avere, l’app Youtube è sempre la regina nel consumo dati di un/a teenager!